Nella conferenza stampa di apertura del festival di quest’anno, Robert Redford ha lasciato intendere che considera la sua funzione di portavoce del Sundance praticamente esaurita. Anche la sera di inaugurazione, è apparso solo una volta, per fare gli onori di casa a Julianne Moore, un’attrice la cui carriera è nata sugli schermi di Park City, più di vent’anni fa. Ma, nella cacofonia generale del progamma, l’idea redfordiana di cinema «impegnato», formatasi nella Hollywood anni settanta, ha trovato una perfetta attualizzazione di se stessa in uno dei migliori film visti fini ad oggi, The Report, di Scott Burns.

PRODOTTO da Vice e Steven Soderbergh, e acquistato da Amazon per 14 milioni di dollari subito dopo la prima di sabato pomeriggio, The Report sembra un salto nel tempo, un film «alla» Sidney Pollack o Alan Pakula – colori bruni, labirintici corridoi di potere illuminati al neon, gole profonde, sullo sfondo di una Washington di austeri marmi bianchi e nixoniano intrigo politico. In realtà si tratta di una storia più recente. Quella di Daniel Jones (Adam Driver), un impiegato federale (come quelli rimasti senza paga per settimane, grazie allo shutdown), con il pallino investigativo a cui venne affidata, per conto della Commissione per l’Intelligence del Senato, la stesura di un rapporto sul famigerato Programma di detenzione e interrogatorio della Cia, istituito dopo l’11 settembre. Cinque anni di lavoro, in una camera sotterranea «blindata», in cui i suoi collaboratori si assottigliavano poco a poco (i ricercatori repubblicani primi a disertare, quando il rapporto – che doveva essere bipartisan – diventò un’iniziativa democratica vista con fastidio anche dalla Casa bianca di Barack Obama): il compito di Jones aveva del donchisciottesco.

PRIVO di accesso agli impiegati della Cia, doveva basare tutta la sua ricerca su documenti e mail messigli a disposizione dall’Agenzia. All’inizio non volevano nemmeno dargli una stampante («quando entra in scena la carta da noi iniziano i problemi», gli dice il funzionario Cia; «da noi la usiamo per verificare che vangano rispettate le leggi» risponde Jones). Burns (sceneggiatore di The Informant!, e Contagion, per Soderbergh e di The Bourne Ultimatum, ma anche produttore di Una scomoda verità) ancora saldamente la crociata di Jones alla dimensione procedural. La chiave della sua inchiesta parte dai nomi dei prigionieri – Abu Zubaydah, Khald Shyack Mohammad… Gli «interrogatori enhanced» ideati per la Cia dallo psicologo Jim Mitchell ,che non aveva mai interrogato nessuno in vita sua (costo ai contribuenti Usa 80 milioni di dollari), a cui sono sottoposti i prigionieri, sono descritti in dettaglio nei documenti, e visualizzati nella loro disumana ferocia. Lo stile è quello fluido, preciso di Soderbergh – scritte sullo schermo ci accompagnano davanti e indietro nella cronologia; insieme ai periodici incontri tra Jones e la senatrice Dianne Feinstein (Annette Bening, magnifica) che sceglierà di rendere pubblico il rapporto nel dicembre 2012, dopo la clamorosa sconfitta democratica del midterm, pochi giorni prima che il controllo del Congresso passi di mano. Tra i maggiori cheerleader del programma di torture vediamo Gina Haspel, l’attuale direttore della CIA (nel film Maura Tierney), che non desiste nemmeno quando è chiaro che massacrare i prigionieri non aiuta né le relazioni internazionali, né le inchieste.

JONES, e The Report, accumulano i fatti con una precisione implacabile -dal quadro Bush (più o meno all’oscuro di tutto)esce meglio di Cheney , e il direttore dell’Fbi Mueller meglio di quelli della CIA: Tenet, Panetta e Brennan. Esplicitamente duro il verdetto anche su Obama, che non voleva pubblicare il rapporto perché la Cia, con il raid su Bin Laden, lo aveva aiutato ad essere rieletto, e perché sperava implausibilmente in un secondo mandato di collaborazione bipartitica. Presente alla proiezione, Jones è stato accolto da una standing ovation del pubblico dell’Eccles Theater. Come lui, fanno «la cosa giusta» anche i due protagonisti di The Great Hack, il nuovo, intricatissimo, documentario Netflix di Karim Amer e Jehane Noujaim . Servendosi di due personaggi opposti -un professore della Parsons School Of Design, David Carroll, e l’incredibile whistleblower Brittany Kaiser – il film dei registi di The Square ripercorre il ruolo dell’abbinamento Facebook/Cambridge Analytica nella manipolazione del referendum su Brexit e delle ultime presidenziali. Tra la Trump Tower, Londra, Washington e la Tailandia, un altro grande indictment dello strapotere e delle insidie del capitale nella digital economy.