Sia in Europa che negli Stati Uniti, il terrorismo è la figura centrale delle retoriche e delle pratiche di sicurezza degli Stati. Lo è in maniera quasi ossessiva a partire dall’11 settembre 2001 e dopo i successivi attacchi che hanno colpito buona parte dei paesi europei. Ma lo era già, in realtà, mano a mano che il declino prima e la scomparsa poi della minaccia sovietica avevano indotto a cercarle un sostituto altrettanto unitario e, soprattutto, altrettanto globale, in grado di racchiudere sotto la stessa etichetta la varietà dei conflitti e dei soggetti politici emergenti.

Non può stupire che questa centralità del terrorismo nel discorso pubblico abbia attirato anche il crescente interesse degli studiosi. Anzi, una volta allentato o decisamente reciso il suo rapporto con altri fenomeni affini (la violenza politica, la rivoluzione, la stessa guerra), il terrorismo è diventato un oggetto di ricerca a sé, a cui sono intitolati corsi di studio, centri di ricerca, dipartimenti universitari e riviste specializzate.

Rovesciare la prospettiva Purtroppo, questa crescita di interesse non si è tradotta in un analogo sforzo di approfondimento storico e teorico. Tutto al contrario. Preoccupati di ritagliarsi la propria quota di utilità nell’impresa collettiva della lotta al terrorismo, quasi tutti gli esperti della materia hanno preferito non perdere troppo tempo a interrogarsi sulle radici del fenomeno, anche a costo di adottare le categorie e le classificazioni che erano già sotto mano nel discorso pubblico o, peggio, a costo di definire il terrorismo su basi ingenuamente pragmatiche, come qualcosa che empiricamente e intuitivamente si chiarirebbe da sé, una violenza criminale e insensata.
Il libro di Francesco Benigno, Terrore e terrorismo Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi, pp. 336, euro 32,00) rompe con questo schema. E lo fa, prima di tutto, sottraendosi alla «dittatura del presente» che è implicita nella logica emergenziale della «lotta al terrorismo». Il volume è, appunto, un saggio storico. Il che significa, tra le altre cose, che la storia del terrorismo non è ricostruita a partire dalle «emergenze» del presente ma, se mai, sono le «emergenze» del presente a essere ricostruite e reinterpretate alla luce dell’esperienza storica.

Questo rovesciamento di prospettiva è sufficiente a sgombrare il campo da alcune delle banalizzazioni più rozze ma, allo stesso tempo, più invasive presenti nel discorso pubblico. Intanto, ripercorrere la storia del terrorismo dalla rivoluzione francese ai moti nazionali dell’Ottocento all’era degli attentati anarchici e nichilisti fino alle diverse ondate degli ultimi cento anni, obbliga a rivedere la genealogia immaginaria che farebbe del terrorismo un fenomeno originariamente e intimamente connesso all’universo religioso. In realtà, tanto l’appello alla «rigenerazione» del mondo o della propria comunità quanto la disponibilità al sacrificio di sé fanno parte da sempre del radicalismo politico. A maggior ragione, l’infinita varietà di motivazioni politiche, formazioni culturali e retroterra sociali così come traspare nella galleria di «terroristi» che si dipana da un capitolo all’altro del libro fa piazza pulita della pretesa di identificare una mai esistita e astorica «personalità terroristica», associata a qualche caratteristica psicologica o a qualche turba psichiatrica.

A emergere dalla ricostruzione storica di Benigno è, piuttosto, una tradizione culturale specifica: quella centrata sulla potenza rigeneratrice della violenza e orientata all’obiettivo di sovvertire l’ordine sociale attraverso l’uso politico del terrore. Qui sta anche la scelta di prospettiva decisiva del libro. Pur riconoscendo il carattere bifronte del terrorismo – da un lato, semplice metodo a disposizione di chiunque decida di impiegarlo, dall’altro violenza politica rivolta contro l’ordine costituito, interno o internazionale – Benigno sceglie di privilegiare la seconda opzione.

Il terrorismo protagonista (sebbene non esclusivo) del libro è il «terrorismo rivoluzionario»: un terrorismo dal basso, ispirato di volta al fine palingenetico della rivoluzione, della «rigenerazione» della nazione o della liberazione da qualche oppressione, e i cui protagonisti sono le avanguardie rivoluzionarie, i rivoluzionari di professione, i movimenti di liberazione o anche i singoli individui impegnati a diffondere la propria Causa attraverso la «propaganda col fatto».
Non un fenomeno nuovo
La continuità storica di questa tradizione smentisce l’inclinazione, diffusa tanto nella letteratura scientifica quanto nella sfera pubblica, a considerare il terrorismo contemporaneo come un fenomeno nuovo o, almeno, totalmente diverso da quello del passato, quanto a motivazioni o a strategie organizzative o a portata politica e geografica. Sebbene attinga a un capitale simbolico diverso da quello dei terroristi del passato, il cosiddetto «nuovo terrorismo» – così come il suo gemello contrapposto, l’anti-terrorismo – non rompe con quella tradizione neppure nelle caratteristiche che più spesso gli vengono attribuite come proprie: la confusione tra motivazioni politiche e motivazioni «personali», l’indifferenza al sacrificio di sé e degli altri, l’assenza di vere e proprie organizzazioni gerarchiche, la proiezione transnazionale e tendenzialmente globale.

Soprattutto, così come nella teorizzazione anarchica del gesto politico esemplare, anche oggi l’atto terroristico è il teatro di una lotta storicamente ripetitiva per la conquista delle menti e dei cuori degli spettatori: il terrorista mette in scena la sua rappresentazione della lotta del bene contro il male e l’antiterrorismo gli replica ricacciandolo nella devianza, nel crimine o nella psichiatria.