Non è come l’altra volta, nel ’97. Non solo perché il nuovo «tanko» venetista per occupare San Marco sembra meno rudimentale, ma perché il quadro è tutto diverso. Allora i «Serenissimi» sentivano di parlare a nome di una regione in fortissima crescita economica e produttiva ma sottorappresentata e mal governata, oltre che vessata dal fisco. Oggi la galassia nella quale è affondata la spada del Ros e della magistratura parla, semmai, di una società locale impoverita dalla crisi e smarrita dalle conseguenze della trasformazione che essa stessa, in molti casi, ha prodotto. Una società locale, peraltro, che è stata parte decisiva di un blocco sociale e di una coalizione politica da cui si è fatta volentieri governare a lungo. Il Veneto è stato davvero, negli ultimi vent’anni, con la grande maggioranza dei suoi elettori e soggetti sociali ed economici, la Vandea di Berlusconi e Bossi, tollerando ogni infamia verbale e fattuale dei loro governi (come tra l’altro riassume bene Enrico Deaglio nel suo «Indagine sul ventennio», appena uscito per Feltrinelli).
Ma non è come l’altra volta anche perché il magma di attori sociali ed economici e di subculture che si agitano nei territori inquieti del Nordest è oggi più complesso.

Tra gli arrestati o indagati ci sono antichi «patrioti» venetisti pacifici, come Franco Rocchetta, e immarcescibili «serenissimi» del ’97, figure folkloristiche e secessionisti elettronici 2.0, come i promotori del molto equivoco referendum on line di «plebiscito.eu» insieme a componenti dei cosiddetti «forconi». Se i «venetisti» rappresentano l’anima ancestrale di questa galassia, i «forconi» ne incarnano uno dei volti più nuovi, più segnati dalla crisi e più ambigui. Se da un lato, infatti, un filone si connette a esperienze autonomiste di varie parti d’Italia, altri hanno ricercato un legame con la galassia neofascista, Forza Nuova in primis, cercando di fare proprio del Veneto il loro campo d’ingaggio esemplare.

La crisi esaspera sentimenti e toni, il vuoto della politica, compresa quella della Lega, e l’inconsistenza della presenza parlamentare del M5S a cui moltissimi avevano guardato (e che avevano votato nel 2013), hanno aperto nuovi spazi al lavorìo delle minoranze mai estinte del venetismo. Quanto alla sinistra, nei confronti delle inquietudini di questi territori ha continuato a rivelarsi inadeguata. E’ come se la crisi della Lega avesse convinto la scena politica nazionale, partiti di sinistra compresi, ad archiviare la questione del federalismo, cioè dell’autonomia e della responsabilità delle comunità locali. Ma l’istanza autonomista, che al suo meglio si inquadra nella prospettiva federalista, è profondamente radicata in questi territori (come dimostra la recente indagine di Demos e Ilvo Diamanti), e probabilmente, come molti federalisti italiani pensavano (ed erano quasi tutti di sinistra), in tutto il paese.

Pensare di risolvere la questione ancor più sbrigativamente, manu militari, omologando e schiacciando con capi d’accusa in verità pesantissimi soggetti molto diversi, rappresenterebbe un nuovo grave errore. Facendo il suo corso la giustizia chiarirà di cosa si tratti davvero, ma intanto, occorre ragionare fuori delle opposte semplificazioni tra folklore e terrorismo. Sembrano capirlo, non da oggi in realtà, componenti di movimento significative (su Global Project, ad esempio) che invitano a guardare alle istanze di autogoverno come a spinte e visioni che radicalmente innovano le pratiche del cambiamento e pongono i conflitti in una prospettiva di trasformazione dal basso degli assetti statuali, certo distinguendo tra chi ripropone le «piccole patrie» egoiste e regressive e chi esprime, con la vocazione all’autonomia, un’idea inclusiva di cittadinanza e di libertà. E’ molto timida, elusiva o peggio, anche gran parte della sinistra, su questo. Le gioverebbe rileggere, ad esempio, il Silvio Trentin di «Liberare e federare», idee illuminanti anche per il nostro tempo e per un’altra Europa.