Presa visione dei decreti attuativi della delega sul mercato del lavoro (il cosiddetto Jobs Act), e dei loro pessimi contenuti (superamento dell’articolo 18; decurtazione degli ammortizzatori sociali) ci preme trattare subito del terzo decreto cioè di quello sulle tipologie contrattuali, ampiamente propagandato e incentrato sulla asserita abolizione delle collaborazioni coordinate continuative.

Invero, sulla assoluta negatività degli altri decreti, in tema di licenziamenti e flexsecurity, nessuno può aver dubbi, mentre è necessario sfatare immediatamente l’idea che il governo Renzi abbia bensì “rottamato” l’articolo 18 ma, in compenso, abbia anche effettivamente abolito quella tipologia di lavori precari.

La verità è del tutto diversa perchè dal decreto sulle tipologie contrattuali può, invece, derivare un rilancio massiccio e “selvaggio” delle collaborazioni coordinate e continuative nella loro forma più pericolosa quella “senza progetto” (co.co.co.) che la legge Biagi aveva in qualche modo contenuto e marginalizzato. Oppure, può derivarne una vera alluvione di false partite Iva, con grave danno, oltre che dei lavoratori, degli istituti previdenziali.

Per comprendere appieno le ragioni di quanto qui si afferma è necessario, però, comprendere le varie “fasi” di un vicenda, giuridico-concettuale e storica, un po’ intricata, ma assai istruttiva per valutare appieno la disonestà di chi ci governa, e acquisire alcune nozioni preliminari importanti:

1) La prima nozione è che nel campo del lavoro autonomo si fronteggiano due fondamentali figure: da una parte il lavoro autonomo “vero”, quello dell’imprenditore e del professionista che vendono sul mercato beni e servizi da loro prodotti mediante loro organizzazione e ciò fanno attraverso la emissione ai clienti di una fattura gravata da imposta Iva (con apertura, pertanto anzitutto di una partita Iva), e dall’altra parte il lavoratore cosiddetto “parasubordinato”, ossia il collaboratore coordinato e continuativo (co.co.co.) che senza mezzi propri, presta personalmente la sua attività coordinata con la attività di impresa di un committente, non sulla base di richieste formulate volta per volta, ma di un accordo programmatico iniziale destinato a durare nel tempo.

La distinzione tra le due figure è poi consacrata dall’articolo 5 co. II° D.p.r. 597/1973 (la legge sull’Iva) la quale esclude, in via di principio, che le prestazioni inerenti a collaborazioni coordinate e continuative siano soggette alla imposta sull’Iva e alle emissioni di fatture. Anzi il co.co.co. riceve il suo compenso con una sorta di busta-paga, ha diritto a (ridotti) contributi previdenziali Inps, e il suo reddito è equiparato fiscalmente a quello dei lavoratori subordinati.

C’è, però, una eccezione che, in qualche modo, intorbida il quadro: se il lavoratore ha già altre attività di lavoro autonomo, e ha quindi una partita Iva, può assoggettarvi anche i compensi per collaborazioni coordinate e continuative, senza dover aprire una parallela posizione di co.co.co. ai fini tributari e fiscali. Si pensi a un avvocato che fra i tanti clienti abbia anche una ditta per la quale svolga una consulenza continuativa e programmata (co.co.co.).

Questa è l’origine del fenomeno delle “false partite Iva”, che si ha quando quel cliente “particolare” è – guarda caso – quello che fornisce la massima parte del reddito come cliente quasi unico (e magari ha suggerito lui al lavoratore di aprire la partita Iva).

2) Queste problematiche, all’apparenza un po’ astruse, hanno investito il diritto del lavoro quando con la legge finanziaria dell’anno 2000 si è consentito di stipulare co.co.co. non più, come prima, solo per prestazioni artistiche e di alta professionalità, ma per qualsiasi mansione, anche di basso livello professionale.

Si è scatenata, allora, una vera “corsa al co.co.co.”, contratto che, in pratica, è quasi indistinguibile da quello di lavoro subordinato, ma consente (o consentiva) di non pagare contributi, né ferie e 13° mensilità e di licenziare liberamente il lavoratore.

La “corsa al co.co.co.” è stata interrotta – occorre ricordarlo – dalla legge Biagi, positiva su questo (solo) punto: con l’articolo 61 del Dlgs. 276/2003 fu stabilito che salve alcune limitate eccezioni, le collaborazioni coordinate e continuative dovevano essere finalizzate alla realizzazione di uno specifico progetto (nasceva così il co.co.pro.), diverso dalla normale produzione del committente, altrimenti per l’articolo 69 della stessa legge si convertivano tout court in rapporti di lavoro subordinato.

Questa regola di “conversione” valeva – occorre subito dirlo – per tutte le collaborazioni, sia con mansioni di alto che di basso rilievo e con qualsiasi ampiezza di autonomia esecutiva, anche in ordine a tempi , luoghi modalità della prestazione.

3) Come hanno allora reagito gli imprenditori allo “stop” ai co.co.co “normali” da parte della legge Biagi? Per un po’ hanno cercato di utilizzare i co.co.pro., mettendo sulla carta progetti improbabili e stiracchiati dietro i quali nascondere la realtà del lavoro subordinato, poi, preso atto delle difficoltà (e delle soccombenze giudiziarie) hanno deciso di fare un “salto di corsia” e di ricorrere sempre, a fini simulatori, al rapporto di lavoro autonomo “puro”, imponendo a lavoratore di aprire una partita Iva e di emettere fatture.

Ai tempi della “Legge Fornero” questo processo era ormai compiuto, con i co.co.pro. in piena crisi e le false fatture Iva in impetuosa crescita. La legge Fornero ha ulteriormente messo in crisi l’abuso dei co.co.pro., introducendo regole di serietà circa le caratteristiche dei progetti, mentre per le false partite Iva ha avuto il merito di porre il problema, pur applicando, poi, rimedi deboli.

Ha, infatti, implicitamente ribadito che tra lavoro autonomo “vero”, con Iva e collaborazione coordinata e continuativa vi è opposizione concettuale e di principio e lo ha fatto introducendo (articolo 12 co. 26 L. 92/2012) alcune presunzioni legali che da certi fatti (ad esempio. reddito all’80% da un solo committente; base logistica presso questi, ecc.) inducono la sussistenza di una collaborazione coordinata e continuativa al posto del rapporto di lavoro autonomo “puro”, con finale approdo, poi, al lavoro subordinato in mancanza di un “progetto”.

4) Alla vigilia del Jobs Act, il problema del precariato attraverso collaborazioni coordinate e continuative era dunque già risolto, o in via di risoluzione ma il governo Renzi, fingendo di chiuderlo definitivamente, lo ha invece riaperto, con prospettive pericolosissime, mediante il decreto sulle tipologie contrattuali. Lo ha fatto, a nostro avviso, con astuzia serpentina e vediamo come: ha previsto la abolizione dei co.co.pro., e quindi anche della loro normativa, compresi i fondamentali articoli 61-69 Dlgs. 276/2003, i quali come detto, avevano l’effetto di proibire i co.co.co., prevedendo, in mancanza di progetti la conversione automatica in rapporti di lavoro subordinato.

Gli ingenui che si rallegrano della abolizione dei co.co.pro. non si rendono conto che con essi salta il “tappo” che ha impedito di dilagare ai co.co.co. “normali” , i più pericolosi.

Si obbietterà che, però, l’articolo 47 del Decreto attuativo contempla, a sua volta, la “riconduzione al lavoro subordinato delle collaborazioni coordinate continuative”, ma proprio qui sta il trucco (o la seconda parte del trucco) perché l’articolo 47 contempla solo una modesta parte delle collaborazioni quelle che già di per sé appaiono essere in realtà lavoro subordinato. Ossia quelle , dice il decreto, che “si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro”. E tutte le altre? Che fine fanno quelle con prestazioni prevalentemente ma non esclusivamente personali o con contenuto non ripetitivo ma di concetto, o in cui sia il prestatore a poter decidere tempi e luogo della prestazione?

Poiché non sono più “intercettate dagli articoli 61-69 Dlgs. 276/2003 dovrebbero ora avere corso libero, e si scopre, quindi, la serpentina astuzia dei consiglieri del governo Renzi: cancellare il “trasformatore co.co.pro.” e prevedere la riconduzione al lavoro subordinato soltanto delle collaborazioni di basso e bassissimo livello. Si crea così, lì accanto, un ampio spazio dove le altre collaborazioni potrebbero nuovamente moltiplicarsi liberamente, con evasione delle regole del diritto del lavoro e senza lo spauracchio della necessità di un progetto

Uno spazio che, probabilmente, nelle intenzioni di quei “consiglieri” dovrebbe essere occupato dal cosiddetto “contratto economicamente dipendente”, ossia da una forma ridimensionata di co.co.co., ma ancora ben lontano dalle garanzie (quelle rimaste) del lavoro subordinato.

Oppure, costituire spazio di colonizzazione per le false partite Iva, che significativamente il decreto attuativo ignora, ma che, al confronto, appare prospettiva meno pericolosa, una volta chiarito l’equivoco che si annida nell’articolo 5 secondo comma DPR 597/1973.

Concludiamo, osservando che, una volta scoperto il trucco, i rimedi non sarebbero difficili: basterebbe modificare l’articolo 47 del decreto attuativo, prevedendo una nozione ampia di collaborazione da ricondurre a lavoro subordinato e chiarire che il regime Iva cui venga eccezionalmente sottoposta una prestazione (continuativa) non ne cambia la natura.

Ma a chi affidare tale compito? Non certo alla cosiddetta “sinistra Dem” che ora versa lacrime di coccodrillo dopo aver di fatto collaborato alla approvazione del Jobs Act e all’abolizione dello Statuto dei Lavoratori, con ogni sorta di ipocrisia e di complicità con Renzi, e coprendosi sistematicamente di ridicolo e vergogna nell’avanzare, obiezioni ed emendamenti “di facciata”, poi subito abbandonati. Anche Fantozzi, a un certo punto, è andato in pensione! Occorre, semplicemente che l’opposizione sociale esprima un nuovo soggetto politico.