La guerra non si ferma. Il grave attentato suicida ad al-Qubah in Cirenaica ha causato ieri 47 vittime e 26 feriti. I due attentatori suicidi erano un libico e un saudita, Battar al-Libi e Abu Abdallah al-Jazrawi.

L’attacco è stato rivendicato dai jihadisti che controllano la città e puntano sulla loro appartenenza allo Stato islamico (Isis), gruppo attivo in Siria e Iraq. All’attentato avrebbero fatto seguito bombardamenti su Sirte dell’aviazione libica pro-Haftar, mentre navi da guerra egiziane starebbero pattugliando le coste libiche nel vuoto lasciato dalla marina militare italiana.

Il centro della città di Sirte, al confine tra Tripolitania e Cirenaica, sarebbe ancora sotto il controllo dei jihadisti. Le milizie «Scudo di Misurata» nei giorni scorsi avevano lanciato una serie di incursioni per liberare la città dai combattenti annunciandone prematuramente la liberazione. Gli estremisti islamici avrebbero imposto anche un coprifuoco notturno a Sirte. E così i jihadisti controllerebbero ancora alcuni edifici amministrativi.

Sarebbe invece in corso un negoziato, con la mediazione di alcuni leader tribali locali, per permettere il deflusso dei jihadisti verso la città di Nawfaliya, a est di Sirte. Come se non bastasse, una delle autobombe di Al-Qubah è esplosa nei pressi della residenza di Akila Seleh, presidente del parlamento pro-militari di Tobruk.

Ma ieri il pressing internazionale per una soluzione negoziale del conflitto ha segnato il suo massimo punto di stallo. Egitto, Giordania e governo di Tobruk hanno reagito al tentativo di mettere a freno le loro intenzioni guerrafondaie. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha concesso l’autorizzazione all’uso della forza, da parte dei militari guidati dal sodalizio Sisi-Haftar, e non ha ceduto alla richiesta di cancellare l’embargo sulla fornitura di armi al golpista libico. L’Egitto ha invece chiesto all’Italia di intervenire al suo fianco «per il bene» del paese. Queste dichiarazioni del ministro degli Esteri, Sameh Shoury, suonano come una minaccia che fin qui Roma non ha accolto. Ieri il premier Matteo Renzi ha fatto sapere di essere sulle stesse posizioni della Germania, più cauta nel suo giudizio nei confronti del presidente egiziano di quanto non siano Francia e Russia. Si tratterebbe di una novità per il governo Renzi che fin qui si è allineato sulle posizioni del generale egiziano.

E così il premier Abdullah al-Thinni e il parlamento di Tobruk hanno respinto qualsiasi ipotesi di formazione di un governo di unità nazionale. Questo ha confermato ancora una volta che la mancanza di volontà di dialogo e di riconoscimento della legittimità, almeno all’esistenza della controparte, viene dai militari e non dagli islamisti che controllano il parlamento di Tripoli, appoggiati dai Fratelli musulmani e dalle milizie «Scudo di Misurata».

Ma anche a Tripoli la volontà di riprendere a dialogare con Sisi e Haftar latita. Omar Al-Hassi avrebbe fatto pressioni perché le Nazioni unite condannino i raid egiziani su Derna. Secondo al-Hassi, la brutale decapitazione dei 21 copti sarebbe opera di militari libici, vicini a gruppi che si rifanno alla variegata galassia post-gheddafiana pro-Haftar, e ha chiesto una condanna internazionale del regime egiziano e dei suoi raid aerei contro Derna. Secondo alcuni media marocchini, il tavolo negoziale avrebbe dovuto tenersi la prossima domenica in Marocco, ma sarebbe in procinto di essere boicottato dalle due parti. Mentre l’Unione europea, per bocca di Federica Mogherini ha ribadito l’intenzione di favorire i tentativi di dialogo, rafforzando la mediazione dell’inviato delle Nazioni unite per la Libia, Bernardino Léon.

Il conflitto si aggrava anche al confine tunisino. Sono migliaia gli egiziani bloccati, in territorio libico, al valico di Ras Jedir. Non riescono ad attraversare la frontiera in seguito all’evacuazione disposta dall’esercito egiziano. Secondo il Cairo, sono già centinaia gli egiziani evacuati dalla Libia, molti sono in attesa di rimpatrio, per evitare rappresaglie dopo l’attacco Sisi-Haftar su Derna.

Insieme al Qatar, che ieri ha ritirato il suo ambasciatore al Cairo, anche la Turchia è entrata nel mirino del sodalizio Sisi-Haftar. Ankara è l’ultima capitale a continuare a criticare l’uso della forza da parte dei militari in Libia e ad appoggiare i partiti che si rifanno alla galassia della Fratellanza musulmana e all’islamismo politico nei due paesi confinanti. E così il premier di Tobruk, Abdullah al-Thinni ha accusato la Turchia di sostenere i terroristi, compiendo una grave generalizzazione in merito alle forze moderate che nulla hanno a che vedere con i terroristi, e minacciando sanzioni economiche.

La guerra in Libia è sempre più un conflitto per procura che vede scontrarsi l’Arabia saudita con Egitto ed Emirati arabi uniti con i militari di Haftar da una parte, e gli islamisti di Tripoli, e i loro ambigui legami con i gruppi che fanno ricorso alla lotta armata, con al loro fianco Qatar e Turchia. Il cartello Fajr (Alba) niente ha a che fare con gli atti perpetrati dalle milizie jihadiste Ansar al-Sharia a Bengasi e con i sedicenti Isis di Sirte e Derna.