Jihadisti armati hanno attaccato un albergo, di solito affollato di stranieri, diplomatici e sede di varie multinazionali occidentali, a Tripoli. Sono nove i morti e dodici i feriti. Nella lista dei morti compare anche un cittadino statunitense. Uomini armati sono entrati nella hall dell’hotel Corinthia nella mattina di ieri aprendo il fuoco sui clienti mentre una macchina, imbottita di esplosivo, è saltata in aria all’esterno dell’albergo. «Ho sentito un’esplosione ed ho visto persone scappare verso di me, siamo fuggiti dall’uscita posteriore dell’albergo attraversando il garage sotterraneo», ha dichiarato un uomo. Secondo testimoni oculari, i jihadisti erano tra i tre e i cinque, alcuni di loro hanno azionato cinture esplosive e si sono fatti saltare in aria.

La versione degli ufficiali di polizia libici parla di tre guardie di sicurezza uccise nell’esplosione dell’autovettura alle porte dell’albergo. Secondo fonti militari, già da settimane circolano avvertimenti ai manager dell’albergo di possibili attentati, per questo l’hotel sarebbe stato quasi vuoto al momento dell’attacco. Nei mesi scorsi, l’albergo aveva ospitato alcuni workshop della missione delle Nazioni unite in Libia (Unsmil). Non solo, diplomatici francesi e qatarini alloggiano nell’hotel. Al momento dell’attentato nelle stanze del Corinthia si trovava anche il premier del governo filo-islamista di Omar al-Hassi, rimasto illeso.

Per questo l’Alto rappresentante della politica Estera dell’Unione europea, Federica Mogherini ha subito parlato di un attacco contro i negoziati. Il tentativo di mediazione, promosso dal rappresentante Unsmil in Libia, Bernardino Leon, si sta svolgendo a Ginevra dopo vari tentativi falliti a Tripoli e il boicottaggio del parlamento legittimo di Tripoli, vicino ai Fratelli musulmani. I servizi di Intelligence «stanno monitorando le condizioni di sicurezza a Tripoli», ha sottolineato il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. L’ambasciata italiana è una delle poche ad essere rimaste aperte. La scorsa primavera le rappresentanze diplomatiche occidentali hanno chiuso in seguito allo scoppio degli scontri tra islamisti e militari, vicini al golpista Khalifa Haftar. Gentiloni, che ha più volte espresso la sua intenzione di intensificare gli sforzi del governo italiano per fronteggiare la crisi libica, ha definito l’attentato come un modo per «boicottare e influenzare» l’accidentato processo di riconciliazione nazionale, avviato a Ginevra, e che aveva permesso un timido tentativo di cessate il fuoco nelle scorse settimane.

Lo Stato islamico, che in Libia ha la sua roccaforte nella città costiera di Derna, ha rivendicato l’attentato al Corinthia. La rivendicazione parla di un atto di rappresaglia dopo la morte sospetta di Abu Anas al-Libi. Il jihadista è deceduto in un ospedale di New York nei primi giorni di gennaio. Al-Libi era accusato negli Usa di essere la mente informatica della rete terroristica internazionale al-Qaeda. L’imputato ha sempre negato di aver preso parte agli attacchi alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania del 1998 in cui hanno perso la vita oltre 220 persone, causando circa 4500 feriti. Secondo la versione ufficiale, al-Libi sarebbe morto durante un’operazione chirurgica. L’uomo era infatti da tempo malato. La moglie, Um Abdullah ha invece avanzato dei dubbi sulle circostanze della morte di al-Libi e ha accusato il governo di «rapimento, maltrattamento e assassinio di un innocente».

Al-Libi era stato catturato in un blitz dell’esercito statunitense a Tripoli nell’ottobre del 2013, poi detenuto e interrogato su una nave da guerra statunitense prima di essere estradato negli Stati uniti. Le autorità di Tripoli avevano chiesto spiegazioni al segretario di Stato John Kerry sulle circostanze dell’arresto in territorio libico.

Per sottolineare l’estrema precarietà in cui versa il paese, Amnesty International ha reso noto un report in cui chiede l’adozione di sanzioni mirate e l’avvio di procedimenti giudiziari, attraverso la Corte penale internazionale, «per porre fine alla serie di sequestri, torture, uccisioni sommarie e ulteriori abusi, equivalenti in alcuni casi a crimini di guerra, commessi dalle forze rivali che si contengono la città di Bengasi». Il think tank punta il dito sia contro gli islamisti che appoggiano l’operazione Fajr (Alba) e il parlamento di Tripoli sia contro i militari dell’ex agente Cia Haftar e la loro operazione Karama (Dignità). Ma la causa iniziale che ha determinato il proliferare di milizie e di scontri tribali in un contesto di spartizione territoriale, per Amnesty, sono sempre gli illegittimi attacchi della Nato del 2011.