Mercoledì, mentre dalla Turchia il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg annunciava una nuova missione post-2016 in Afghanistan, da Qolola Poshta, un quartiere residenziale di Kabul, sede di Ong e dell’ambasciata olandese, si sono sentiti i primi colpi. Provenivano dal Park Palace, un hotel di livello medio-alto, frequentato soprattutto ma non esclusivamente da stranieri. Afghani e stranieri chiacchieravano e mangiavano nel giardino intero, su cui si affacciano le stanze, in attesa che cominciasse il concerto del cantante Altaf Hussain.

Poi, l’assalto dei barbuti. Ancora non è chiaro se gli assalitori fossero tre, come hanno riferito alcune fonti, o uno soltanto, come ha dichiarato il portavoce degli studenti coranici Zabihullah Mujahid. L’assedio è comunque durato fino alle prime ore del mattino. Dal quartiere di Deh Afganah, dove chi scrive alloggia, l’eco degli scontri arrivava nitido, a intermittenza: hanno faticato a lungo le forze speciali per evacuare dell’albergo 54 ospiti. Per quattordici persone non c’è stato niente da fare. La conferma ufficiale sul numero delle vittime è arrivata molto tardi, ieri pomeriggio, da parete di Unama, la missione delle Nazioni unite qui a Kabul (mentre il ministero degli Interni afghano è rimasto a lungo in silenzio).

Tra le vittime, l’italiano Sandro Abati, 48 anni, che secondo la Farnesina «lavorava come consulente per un’agenzia che promuove investimenti in Afghanistan» e la donna kazakha che avrebbe dovuto sposare presto, Aigerim Abdulayeva, 28 anni. Oltre a loro, 4 afghani, 4 indiani, 2 pachistani, un britannico e uno statunitense. Almeno 7 di loro erano operatori umanitari, ha ricordato il portavoce di Acbar, una delle agenzie che coordina le attività umanitarie nel paese. Due, Jawid Ahmad Sahai e Mohammed Mohammady, lavoravano per l’organizzazione Action Aid.

L’obiettivo, anche questa volta, erano «gli stranieri». Perché «le forze di occupazione devono rendersi conto che non sono al sicuro in nessun luogo», ha minacciato Mujahid. I Talebani lo hanno dimostrato in passato: non fanno distinzioni tra civili e militari. Per loro – ha ricordato su twitter un altro portavoce, Abdulqahar Balkhi – «chiunque sia un cittadino di un paese straniero, specie se della Nato, è considerato un occupante». Un obiettivo legittimo.

Le raccomandazioni dell’Onu e di Human Rights Watch lasciano il tempo che trovano. I Talebani colpiscono tutti. Anche gli obiettivi civili. Ma sarebbe sbagliato pensare che gli attacchi ai «soft target» siano soltanto azioni sacrificali e suicide, un segno di debolezza sul piano militare. Oltre a questo tipo di attentati, le forze anti-governative portano avanti altre strategie. E non esitano a condurre operazioni complesse, per la conquista e il controllo del territorio. Nella provincia settentrionale di Kunduz, cruciale nella geografia commerciale e politica del paese, da settimane è in corso un’offensiva che ha provocato 100 mila sfollati.

Non fa notizia, perché non ci sono stranieri coinvolti. Non fa notizia neanche la chiusura forzata, questo mese, del 20% delle scuole della provincia di Ghor, nel cuore del paese, a causa degli scontri in atto. Non fa notizia l’instabilità della provincia nord-occidentale del Faryab, come di molte altre, in particolare quelle a ridosso della Durand Line, il confine con il Pakistan. Da lontano, si pensa forse che la guerra sia finita. Al contrario, continua. Le vittime crescono. Ieri l’ufficio dell’Onu a Kabul ha reso noto che nei primi 4 mesi del 2015 sono state 2.937 le vittime civili afghane (974 i morti, 1963 i feriti). Il 16% in più rispetto al 2014. Mentre da Emergency fanno sapere che, nei loro ospedali di Kabul e di Lashkargah, il numero delle vittime accolte nel 2014 è stato del 146% superiore a quello del 2010.

La guerra afghana continua, dunque. E nessuno vuole ammettere che è una guerra persa.

La retorica del «mission accomplished» recita che il nuovo presidente, Ashraf Ghani, è un politico serio, non un «cavallo pazzo» come il predecessore Karzai. Che i soldati afghani reggono bene, da soli, il peso dei combattimenti. Che l’economia del paese crescerà. Che il processo di pace darà presto buoni frutti. Storie.

Il nuovo governo ha già deluso gli afghani, ed è paralizzato nell’antagonismo tra Ghani e il quasi primo ministro Abdullah Abdullah. Perfino gli americani temono che, sotto il profilo militare, «i ministeri afghani non siano pronti – in alcun modo – a reggersi sulle proprie gambe» (lo ha detto tre giorni fa John F. Sopko, Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction). Senza considerare che dal 2013 al 2014 sono stati 8.900 i soldati afghani uccisi in combattimento. L’economia è in stallo. Il processo di pace non è ancora partito davvero. E i Talebani e le altre forze anti-governative restano forti. Anche per questo, la Nato sembra averci ripensato. Gli ultimi soldati non verranno via alla fine del 2016, con il compimento della missione Resolute Support: a partire dal 2017, ha annunciato mercoledì da Antalya Jens Stoltenberg, ci sarà una nuova missione.

«A guida civile», ma con componenti militari. Una missione di non-combattimento in un contesto in cui si combatte. Uno strano ibrido di cui per ora si hanno poche informazioni. Vedremo tra qualche mese. I Talebani però hanno già fatto sapere che non ci stanno. «Il jihad continua fino a quando l’ultimo soldato straniero non lascerà il nostro paese».