«Vibrata protesta» sì, ma senza oltrepassare di molto i limiti del bon ton istituzionale: che non si confondano i nuovi padri della patria con la teppa grillina. Interventi a raffica, accuse pesanti rivolte al presidente del Senato Grasso di essere «venuto meno al suo ruolo di terzietà e garanzia», abbandono dell’aula (Fi e Gal), probabilmente a breve anche una mozione di censura contro Grasso. Ma pochi urli, e oltretutto dovuti a un equivoco: il presidente parla di «un senatore, anzi ex senatore» alludendo a Sergio Di Gregorio, il pentito che accusa Berlusconi di esserselo comprato per indebolire il governo Prodi nel 2006, gli azzurri pensano che intenda invece il decaduto e insorgono. Nessun assalto alla presidenza, nessuna intemperanza. Si scalda un po’ l’azzurro Malan quando un grillino va giù pesante con l’accusa di disonestà. Nitto Palma avverte che se il fattaccio si ripeterà e il presidente non censurerà a dovere, nonostante abbia preso un po’ di anni e un po’ di chili (e giù a slacciare la giacca per mostrare la trippa di troppo), risolverà la faccenda da solo e chi vuole capire capisca. Però nulla di più.

La rabbia del centrodestra (quello di opposizione come quello alfaniano di governo) era prevista e prevedibile. Il voto del consiglio di presidenza si era espresso 10 a 8 contro la costituzione del Senato in parte civile nel processo per la compravendita di parlamentari. Ma era un voto consultivo. Il presidente poteva ribaltarlo e lo ha fatto: «Da solo e senza nessuna pressione», «Per difendere la dignità del Senato», non per attaccare qualcuno ma «per rispetto delle regole». E se è vero che un gesto simile è inedito, è anche vero «che mai prima un ex senatore aveva confessato di aver ricevuto soldi in cambio del suo voto» (qui l’equivoco e l’abbandono dell’aula).

La tensione era inevitabile. S’infervorano i berlusconiani e i diversamente berlusconiani, critica ma sul pacato e compassato Pier il neoberlusconiano, si tengono ai margini popolari e Sc, che pure in consiglio avevano votato con la destra. Gli azzurri bersagliano l’infelice espressione adoperata a caldo da Grasso per spiegare la sua decisione, «Un dovere morale». E che, noi saremmo privi di morale? Alessandra Mussolini segnala che lei parte civile non si costituisce e uno dopo l’altro, a voce o tramite bigliettino fatto pervenire alla presidenza, la imitano in molti. Ma tutto finisce qui.

Poteva andare peggio. In altri momenti sarebbe andata peggio. Ma stavolta l’ordine del capo è tirare la corda però senza romperla. Non che l’accusato numero uno sia calmo e tranquillo: dire furibondo è poco. Però ha deciso di tenere i nervi sotto rigido controllo, perché l’accordo con Renzi lo si difende anche così. Sulle motivazioni del gesto, temuto ma non del tutto previsto, Berlusconi non ha dubbi: fa parte di una manovra su più fronti che mira ad affondare l’asse con Matteo il Giovane, la legge elettorale, le riforme. Anche lo strano gioco intorno all’eventuale cambio della guardia a palazzo Chigi inquieta parecchio il Cavaliere. Certo, Renzi al posto di Letta potrebbe essere un vantaggio, ma i forzisti sono convinti che il sindaco non possa ripetere il colpo gobbo di D’Alema nel ’98 senza offrire una contropartita al suo elettorato, e potrebbe trattarsi solo di garantire subito il Quirinale a Prodi, sanando così sia la ferita del 1998 che la lacerazione del 2013. E una presidenza Prodi certo non sarebbe un vantaggio per Arcore.

Dunque il cavaliere calmiera la rabbia e ordina ai suoi di temperare le proteste senza neppure vagheggiare la rottura. Non solo perché ora che è tornato in gioco alla grande certo non vuole finire di nuovo in panchina. Anche, e forse soprattutto, perché con questa legge elettorale una chance seria di vincere le elezioni a distanza di vent’anni dal primo e allora effimero trionfo ce l’ha. Non basta lo “sgarbo” del presidente del Senato per metterla in pericolo.