Pur di nascondere la propria incapacità nel gestire la crisi dei rifugiati l’Unione europea si appella ancora una volta ad Ankara. «Il piano congiunto con la Turchia resta una priorità e dobbiamo fare tutto il possibile perché abbia successo», ha confermato ieri il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Dopo una notte di trattative, durante la quale non sono mancati momenti di tensione tra il premier italiano Matteo Renzi e i falchi dell’Europa dell’est, il vertice dei capi di Stato e di governo si è chiuso a Bruxelles con un documento in cui i Ventotto si dicono d’accordo sulla necessità di rafforzare le frontiere esterne per bloccare i flussi, salvare Schengen e dare avvio ai ricollocamenti tra gli Stati membri. Niente di che, visto che comunque ogni capitale continua a fare di testa sua e che l’accordo è buono solo per rinviare di qualche settimana i problemi. Ma comunque abbastanza per consentire a Jean Claude Juncker di tirare un sospiro di sollievo. «Ora ho la speranza che si facciano progressi verso soluzioni che abbiamo tratteggiato mesi fa», ha detto il presidente della commissione Ue.
Il punto vero, però, è proprio il patto con Ankara che sebbene firmato ormai da tempo ancora non parte. O almeno non come Bruxelles vorrebbe, vale a dire con uno stop definitivo dei profughi. Per questo l’Ue insiste. Saltato il prevertice di tre giorni fa a causa dell’attentato ad Ankara, adesso Tusk punta a un nuovo incontro da tenersi ai primi di marzo, sicuramente prima del prossimo vertice già fissato per il 17 e 18. Bisognerà vedere cosa chiederà ancora Erdogan per svolgere il ruolo di gerdarme che gli chiede l’Europa dopo i 3 miliardi di euro già messi sul piatto da Bruxelles insieme alla promessa di una serie di concessioni politiche, tra le quali l’inserimento della Turchia tra i Paesi cosiddetti sicuri (cosa che permetterebbe di rispedire sull’altra sponda dell’Egeo decine di migliaia di migranti).
Di Turchia come paese «chiave» per ridurre i flussi hanno parlato anche Angela Merkel, Francois Hollande e Alexis Tsipras in un incontro riservato in cui il premier greco non ha nascosto la preoccupazione che il tetto agli ingressi dei profughi posto dall’Austria (80 richiedenti asilo e 3.200 passaggi al giorno) finisca col creare un effetto domino le cui conseguenze verrebbero pagate dalla Grecia. Tsipras ha anche provato a battere i pugni sul tavolo minacciando di non firmare le conclusione finali sulla Brexit senza rassicurazioni che le frontiere non verranno chiuse. Se davvero era tale, la minaccia però non ha funzionato. L’Austria ha dato avvio alle misure restrittive annunciate per quanto riguarda gli ingressi (e anzi ha promesso un nuovo giro di vite). Di conseguenza la Slovacchia ha reso noto di voler costruire una barriera con l’Austria per timore di veder arrivare i rifugiati verso il proprio confine. L’Ungheria chiuderà da domenica e per 30 giorni i tre valichi ferroviari con la Croazia, mentre la prossima settimana il parlamento sloveno voterà il conferimento ai suoi militari di «limitati poteri di polizia» per il controllo dei confini. Ulteriori misure restrittive sono state annunciate anche da Serbia e Macedonia, mentre secondo indiscrezioni della stampa tedesca Vienna si preparerebbe a inviare soldati in Macedonia per aiutare Skopje nel controllo della frontiera con la Grecia. Inutile dire, infine, che nonostante le belle intenzioni espresse nel documento che ha chiuso il vertice, il blocco di Visegrad continua a rifiutare il meccanismo di quote obbligatorie di rifugiati da ricollocare (in teoria 160 mila in due anni), rifiuto al quale si è unita anche la Francia. «Quando le frontiere saranno sicure accoglieremo 30.000 rifugiati», ha detto Hollande.
Un tirarsi indietro generale che ha fatto infuriare Matteo Renzi, per il quale alcuni Paesi non possono solo prendere. Un riferimento diretto proprio al blocco dell’est che usa l’Unione europea come un bancomat ma poi si rifiuta di accogliere i rifugiati. «Cari amici, basta con le prese in giro», ha detto il premier nel corso della cena di giovedì. «Da un anno vi diciamo che questo problema riguarda tutti. Mettiamola così: la solidarietà non può essere solo nel prendere. Inizia adesso la fase della programmazione del 2020, o siete solidali nel dare e nel prendere oppure smettiamo di essere solidali noi Paesi contributori. E poi vediamo». Posizione condivisa anche da Francia e Germania.
Punti sul vivo, i diretti interessati hanno reagito. L’Ungheria ha definito le parole del premier italiano «un ricatto politico», lo stesso concetto espresso anche dal ministro polacco per gli Affari europei Konrad Szymanski, per il quale «il primo ministro Renzi non può ricattare nessuno». Insomma, si procede come al solito in ordine sparso. Aspettando la Turchia.