Cento cacciabombardieri, 150mila soldati mobilitati, paracadutisti in azione, navi da guerra e mezzi corazzati. Si commetterebbe un grave errore di valutazione a giudicare questo eccezionale dispiegamento di forza militare da parte dell’Arabia saudita, battezzato «Tempesta decisiva», come finalizzato a sbaragliare poche migliaia di combattenti sciiti Houthi che si muovono a bordo di pick up e sono armati di mitra e rpg, per riportare al potere il presidente, Abed Rabbo Mansur Hadi.
L’impiego di tanta forza, l’avere messo insieme una coalizione così ampia – oltre all’Arabia Saudita ne fanno parte Egitto, Marocco, Sudan, Emirati arabi uniti, Qatar, Bahrein, Kuwait e Giordania (il Pakistan ci sta pensando) – la scelta di intervenire militarmente subito, senza nemmeno attendere il vertice della Lega Araba in programma domani e domenica a Sharm el Sheikh, non fa che indicare il vero obiettivo di Riyadh.

Re Salman dell’Arabia saudita ha dichiarato in Yemen una guerra indiretta all’Iran e allo sciismo militante nella regione. E se il suo predecessore Abdallah non aveva esitato ad intervenire in Bahrain con un migliaio di soldati per spegnere nel sangue le proteste popolari contro la locale monarchia sunnita, lui non esita a mobilitare le forze aeree, terrestri e navali per ridare Sanaa all’alleato Hadi. Mettendo insieme un fronte sunnita pronto all’intervento, Salman ha mandato un messaggio chiarissimo a Tehran: Riyadh è pronta ad usare la forza per ridimensionare lo status di potenza regionale riconosciuta che l’Iran otterrà non appena firmerà l’accordo sul nucleare con i Paesi del 5+1 e la Germania, che si sta negoziando a Losanna e giunto nella sua fase decisiva. L’attacco militare in Yemen rappresenta anche un estremo quando velletario tentativo della monarchia saudita di creare tensione tra Washington, che appoggia «Tempesta decisiva», e l’Iran che invece condanna le operazioni saudite in corso in Yemen.

Gli Usa, ieri alla ripresa dei colloqui, hanno detto di vedere «un percorso per procedere e arrivare all’accordo» mentre il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha confermato la determinazione delle parti di arrivare all’obiettivo entro la fine del mese sul quadro politico, prima di un accordo dettagliato entro giugno. Possibilità che non lasciano dormire Salmam e la pletora di principi intorno a lui.

L’Arabia saudita e le altre monarchie del Golfo non avevano organizzato alcuna «tempesta» quando i cacciabombardieri israeliani la scorsa estate scaricavano le loro bombe su Gaza. E non hanno messo certo in piedi una «armata» per combattere i jihadisti dello Stato Islamico che in un pochi giorni hanno preso il controllo di larghe porzioni dell’Iraq. Hanno solo donato qualche raid aereo alla Coalizione anti Isis voluta da Washington.

L’attacco in Yemen spiega bene quali sono le vere priorità dei sauditi in Medio Oriente. «Un tale impiego di forze armate e la partecipazione di tanti Paesi alla coalizione (saudita) indica il desiderio di rivincita di Riyadh nei confronti dell’Iran e la rabbia verso gli alleati americani decisi a trovare un’intesa sul programma nucleare iraniano», spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani.

«Non è possibile pensare che lo scopo saudita sia solo quello di riavere a Sanaa il loro alleato Abed Rabbo Mansur Hadi – aggiunge Rabbani -, re Salman sta lanciando un avvertimento preciso a Tehran: non provare ad allargare il tuo raggio d’azione allo Yemen che era e resta un Paese sotto il mio controllo, sotto la mia influenza e alla mia frontiera meridionale». L’analista sostiene che la mobilitazione militare saudita è una sorta di «azione preventiva» poiché se è vero che i ribelli Houthi godono del sostegno dell’Iran dall’altro lato non ci sono le prove di rifornimenti di armi iraniane ai miliziani sciiti o dell’intenzione di Tehran di provocare la caduta del presidente Hadi e in caos in Yemen.

Bab el Mandeb, «La Porta del lamento funebre». Pare che il nome di questo stretto che congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano, che separa lo Yemen da Gibuti di appena 32 km, derivi, secondo una leggenda, dalle lacrime versate per la separazione dell’Africa dall’Asia.

Nella realpolitik dei nostri giorni, le lacrime non ci sono, i lamenti invece sono tanti, quelli della stampa e dei commentatori arabi schierati contro l’Iran, così simili a quelli che si leggono ed ascoltano in Israele.

Mai come in questi giorni Arabia saudita e Israele sono così vicini. Tel Aviv nelle settimane passate ha fatto sapere che avrebbe giudicato una minaccia concreta la caduta «in mani iraniane», ossia dei ribelli Houthi, di Bab al Mandeb, un transito di eccezionale importanza per la navigazione (anche quella militare) tra il Mar Rosso e l’Oceano indiano. A maggior ragione se si considera che lo stretto di Hormuz, la porta del Golfo, è già «in mani iraniane». È netto il giudizio di Efraim Inbar, direttore del centro BeSa per gli studi strategici dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv. «Israele e Arabia saudita condividono lo stesso punto di vista: l’Iran è una minaccia molto grave per i due Paesi», ci dice «ed entrambi criticano la linea dell’Amministrazione Obama, non capiscono perchè voglia sdoganare e rendere potenza nucleare l’Iran rimescolando pericolosamente gli equilibri regionali». Boaz Bismuth, editorialista del quotidiano Yisrael HaYom, vicino al governo Netanyahu, non ha dubbi: lo Yemen «è un altro dei tanti fallimenti dell’Amministrazione Obama».