«Prezzi più alti e meno scelta per il consumatore. L’amministrazione Obama dovrebbe bloccare la fusione tra AT&T e Time Warner», secondo Bernie Sanders. L’affare da oltre ottanta miliardi di dollari, ipotizzato durante il week end, e grazie al quale il gigante della telefonia Usa assorbirebbe l’operatore del cavo proprietario di reti tv come Cnn, Hbo, Tbs, Tnt e della major Warner Bros., è visto con problematicità anche dal senatore progressista Al Franken («fa suonare alcuni campanelli d’allarme sui rischi del consolidamento dei media») dall’aspirante vicepresidente Tim Kaine («una concentrazione di potere minore è auspicabile, specie quando si parla di media») e dalla stessa Hillary Clinton che, attraverso un portavoce, ha dichiarato che «gli organi di scrutinio dovranno esaminare l’affare con attenzione; ci sono ancora molti dettagli che devono essere chiariti».

I democratici  aggiungono la loro sul più grande merger della storia delle telecomunicazioni Usa, già stroncato da Donald Trump poche ore dopo il suo annuncio. Secondo i termini dell’accordo, AT&T acquisterebbe l’operatore del cavo per 107.50 dollari ad azione, per un totale di 85.4 miliardi (da versarsi metà in contanti e metà in azioni), metterebbe sotto il controllo della telefonia il vasto serbatoio di contenuti di Time Warner, accentuando ulteriormente – almeno dal punto di vista simbolico (oggi quasi tutti i canali tv sono già in gran parte «portatili») – la perdita di centralità della televisione rispetto ad altri apparecchi di fruizione come telefonini, computer o iPad e consolidando su scala senza precedenti (AT&T ha cento milioni di abbonati tra wireless, telefoni normali, e utenti di Direct TV) la proprietà dei contenuti e quelli di chi li trasmette.

Il modello di integrazione verticale (ma un merger di proporzioni molto minori) è quello della fusione avvenuta nel 2011 Comcast e NBC Universal, approvata dalla FCC, la commissione delle comunicazioni di Obama, con alcune condizionali, come la garanzia che tutti i programmi prodotti dalla NBC Universal fossero accessibili anche ad altre compagnie di trasmissione video e che, allo stesso tempo, la Comcast non penalizzasse la distribuzione di servizi streaming come Netflix presso i suoi abbonati.

Da allora, alcune organizzazioni per la protezione del consumatore hanno sollevato critiche sull’efficacia delle protezioni richieste dalla FCC per passare quell’accordo. Si trattava infatti più che altro di restrizioni intese a garantire il libero accesso ai programmi piuttosto che a limitare il rincaro dei costi d’abbonamento. Ma è senza dubbio su una serie di richieste/restrizioni analoghe o basate sulla stessa logica, piuttosto che su un rifiuto netto, che contano AT&T e Time Warner che – nell’articolare il loro accordo – hanno stanziato 500 milioni di dollari pagabili alla Time Warner nel caso che «l’affare» sia bloccato dall’antitrust.

Diversamente da Comcast, la AT&T (già bersaglio di un miliare provvedimento antitrust nel 1982) è dotata oggi di accesso ai consumatori su scala nazionale – sia attraverso servizi di telefonia interurbana che wireless) il che rende la prospettiva del nuovo merger ancora più preoccupante, sia dal punto di vista del controllo dei contenuti che dell’aumento dei costi.
Dalle prime reazioni poco positive alla notizia, sia da parte di Trump che dei democratici, e considerando il fermento anti-corporation che ha scosso la campagna elettorale di quest’anno, l’approvazione del merger potrebbe essere meno garantita del previsto.
E una scelta probabilmente destinata a finire sul carnet del prossimo presidente.