La storica sentenza della High Court risale allo scorso 5 ottobre, ma solo ieri il ministro degli esteri William Hague ha finalmente annunciato la capitolazione. Alla fine di un processo durato cinque anni, il governo britannico patteggia: pagherà un risarcimento ai reduci della guerriglia Mau Mau, la milizia indipendentista keniana che dal 1948 al 1963 combatté una guerra senza quartiere contro le truppe coloniali di Londra e fu schiacciata da una brutale repressione. Gli indennizzi ammonteranno a circa 2600 sterline (poco più di tremila euro) e saranno riscossi da circa 5000 sopravvissuti alla vasta rete di campi di prigionia tesa in Kenya dal domino britannico fra i Cinquanta e i Sessanta, prima dell’indipendenza. In tutto si tratta di circa 14 milioni di sterline (tra i 16 e i 17 milioni di euro). Elargiti a denti stretti, per evitare un processo vergognoso.

È una pagina fosca dell’altrimenti decantato imperialismo dal volto umano della Gran Bretagna, che a lungo e in tutti i modi si è cercato di tenere occulta: l’eccidio, internamento e tortura di migliaia di guerriglieri keniani insorti in una delle tante guerriglie di liberazione propagatesi nella decomposizione del colonialismo europeo negli anni Cinquanta e Sessanta.

Atrocità la cui descrizione è emersa durante le udienze volte a stabilire se i 4 reduci oggi ultrasettantenni (uno è morto di recente) potessero o meno fare causa al governo britannico, e raccapriccianti al punto da non sfigurare nel repertorio del totalitarismo peggiore. Da documenti emersi durante l’iter è emerso che alti ufficiali delle truppe coloniali autorizzarono gli abusi ai danni di prigionieri internati in campi di lavoro durante il conflitto, e che il tutto – omicidi, torture, stupri – avveniva nella piena consapevolezza del governo centrale. Tra i prigionieri torturati c’era anche Hussein Onyango Obama, nonno di Barack Obama.

Il patteggiamento arriva dopo una fitta contrattazione di settimane fra i legali dei reduci e quelli del governo britannico. L’eccezionalità è evidente: è la prima volta che Londra ammette responsabilità criminali al crepuscolo della propria vicenda imperiale e imperialista.

Naturalmente non si tratta di un risultato, come dire, graziosamente concesso da Sua Maestà. Un simile verdetto – e la conseguente mossa di Whitehall – senza l’implacabile determinazione delle vittime e la vitale testimonianza di un team di storici al processo non sarebbe di certo stato ipotizzabile. Inizialmente i legali del governo avevano invano cercato di scaricare la giurisdizione del caso sullo stato del kenya, in quanto erede della precedente amministrazione.

Poi, in secondo grado di giudizio, si era adottata la linea della prescrizione: erano passati troppi anni perché vi fossero i requisiti per un giusto processo. Ma è stato quando la commissione di storici si è resa conto che il governo aveva occultato una vasta mole di documenti inerenti ai fatti (occultamento sistematico e innegabile: 8000 fascicoli da 37 ex-colonie depositate in una sede periferica e non al il Public Record Office), e ammesso la distruzione deliberata di altro materiale che le sorti avevano cominciato a pendere dalla parte dei vecchi reduci.

Tra questi documenti vi è il memorandum, riportato dal Guardian, di Eric Griffith-Jones, alto funzionario giudiziario del Kenya, che considera le brutalità inflitte ai prigionieri «dolorosamente reminiscenti delle condizioni nella Germania nazista o nella Russia comunista». Lo zelante funzionario accettò di ratificare simili pratiche purché fossero tenute segrete. «Se dobbiamo peccare – scrisse – dobbiamo farlo senza rumore». Non c’è poi da meravigliarsi se ieri Hague, oltre al risarcimento, ha annunciato che tale archivio entrerà finalmente nel pubblico dominio.

Sempre a bassa voce, però. La paura del rumore affligge l’establishment britannico di oggi come quello di ieri. E per quanto prevedibile, il relativo silenzio con cui i media moderati hanno tentato di sgonfiare la notizia non impedisce di coglierne il potenziale dirompente: e cioè che si scoperchi un vaso di Pandora di rivendicazioni da parte delle vittime di porcherie che dei funzionari coloniali commettevano nel nome di un impero al tramonto. Potrebbero iniziare gli ex guerriglieri delle Eoka di Cipro negli anni ’50, o funzionari governativi in Guyana nei ’60: entrambi hanno ricordi non proprio edificanti del passaggio britannico e stanno ponderando il da farsi. E gli estremi per simili iniziative ci sarebbero in posti come la Palestina, Malaya, Aden, Irlanda del Nord.

Per quanto simbolico, si tratterebbe di un redde rationem a cui il sedicente imperialismo illuminato britannico davvero non poteva sperare di sottrarsi.