Il 6 agosto scorso Hiroshima ha commemorato per il 70esimo anniversario dello sgancio della prima bomba atomica contro un obiettivo civile. Dopo la cerimonia della mattina alla quale erano presenti i rappresentanti di oltre cento paesi del mondo, tra cui il primo ministro giapponese Shinzo Abe e l’ambasciatrice americana a Tokyo, Caroline Kennedy, le caratteristiche lanterne di carta colorata hanno illuminato il corso del fiume Motoyasu, a poca distanza dal parco del memoriale della pace, in segno di preghiera per le anime delle vittime del bombardamento atomico.

«Come unico paese al mondo ad aver conosciuto l’orrore della distruzione nucleare durante la guerra, il Giappone ha una missione importante di liberare il mondo dalle armi nucleari portando avanti una serie di misure realistiche e pratiche», ha detto il primo ministro Abe nel suo discorso. Il primo ministro giapponese ha promesso che il Giappone sottoporrà una bozza di risoluzione per l’eliminazione totale delle armi nucleari all’assemblea generale dell’Onu. «Abbiamo anche il dovere — ha aggiunto il primo ministro giapponese — di comunicare ben oltre l’impatto umanitario catastrofico delle armi nucleari, al di là delle generazioni e dei confini nazionali». Per questo, «con l’aiuto dei leader mondiali e di giovani da tutto il mondo (…) faremo ulteriori sforzi per realizzare un mondo libero dalle armi nucleari».

Ma gli appelli alla pace nel mondo e all’abolizione delle armi nucleari di quest’anno hanno avuto un suono diverso dal solito. «La pace di Abe è una pace fasulla», ha dichiarato al New York Times un sopravvissuto della bomba atomica presente al memoriale della pace. Proprio a settant’anni dalla fine della guerra del Pacifico, il governo giapponese sembra sempre più vicino a rinunciare al pacifismo che ha caratterizzato la storia del dopoguerra del Paese del Sol Levante. Entro settembre, infatti, il governo di Tokyo intende trasformare in legge alcune proposte di legge mirate ad espandere il ruolo militare delle Forze di autodifesa giapponesi in missioni internazionali e a protezione delle forze di paesi alleati in zone contigue al territorio dell’arcipelago. Una scelta velatamente criticata durante la cerimonia del 6 agosto dallo stesso sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui, che ha sottolineato la necessità per i governi di tutto il mondo di sviluppare sistemi di sicurezza «versatili» e «indipendenti» dalla forza militare.

Stando alla proposta del governo, già approvata dalla Camera bassa e in attesa del voto del secondo ramo del parlamento, gli interventi dell’esercito giapponese all’estero dipenderanno da tre condizioni: se un attacco armato che viene mosso contro un alleato del Giappone mette a rischio la vita di cittadini giapponesi; se non ci sono altri mezzi appropriati per proteggere la vita di cittadini giapponesi; e se, infine, l’uso della forza richiesto per risolvere la situazione di crisi è limitato.

Le proposte di legge sono state portate in parlamento un anno dopo la decisione dell’amministrazione di interpretare l’articolo 9 della costituzione, che sancisce la rinuncia eterna del Giappone alla guerra come metodo di soluzione delle controversie internazionali e il mantenimento di una forza militare con il solo compito di difendere il territorio nazionale da possibili attacchi dall’esterno.

Tra gli esempi di possibile esercizio del diritto all’autodifesa collettiva — diritto sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite — forniti dal governo, ci sono attacchi contro navi militari americane nell’area della penisola coreana oppure missioni di sminamento nello Stretto di Hormuz, tra Iran ed Emirati Arabi uniti, da cui passa gran parte delle petroliere che trasportano greggio verso il Giappone. A fine luglio, poi, Abe aveva ampliato ulteriormente lo spettro delle possibilità di un intervento giapponese nelle acque del Mar cinese meridionale. In quell’occasione il premier giapponese aveva fatto esplicitamente riferimento ai lavori di costruzione di isole artificiali portati avanti dalla Cina che preoccupano alcuni alleati di Tokyo, come Vietnam e Filippine, da decenni ai ferri corti con Pechino per la sovranità su un gruppo di isole contese.

Ma a fare più rumore sono state le dichiarazioni del ministro della difesa giapponese Gen Nakatani nelle ore subito precedenti le celebrazioni per il bombardamento atomico sulla “Città dell’acqua”, il 5 agosto scorso. Parlando della proposta di legge di sicurezza del governo, Nakatani aveva confermato la possibilità che armi nucleari siano trasportate su territorio giapponese, scatenando violente reazioni da parte dell’opposizione e mettendo a rischio l’intervento del primo ministro il giorno successivo.

Nakatani è però subito corso ai ripari spiegando che una tale circostanza è «impossibile» dati i tre principi non nucleari (non possesso, non produzione, non importazione) del Giappone.

Eppure, secondo quanto scrivevano Glenn Hook e Gavan McCormack nel libro del 2004, Japan’s Contested Constitution, la circostanza si sarebbe già verificata in passato. Non sarebbe il Giappone — che con i suoi 54 reattori nucleari avrebbe la capacità di produrre armi nucleari — il problema, ma gli Usa. Il trattato di sicurezza nippo-americano, firmato nel 1960 e ulteriormente rafforzato in caso di approvazione definitiva delle proposte di legge del governo Abe, infatti, permette agli Usa di trasportare armi nucleari su territorio giapponese e stoccarle nelle basi nordamericane del paese.