Cascatore, come si diceva una volta nel gergo cinematografaro, coreografo oggi, dopo la diffusione di massa della rivoluzione cinematografica scatenata da Yuen Woo-ping con Snake in the Eagle’s Shadow e soprattutto Drunken Master.
David Leitch, il regista di Atomic Blonde (nelle sale italiane dal 17 agosto) è sia cascatore che coreografo. Uno stuntman. Il suo curriculum si presenta bene: controfigura di Brad Pitt, regista di alcuni segmenti di John Wick e, cosa non ovvia, double per Jean-Claude Van Damme. Insomma, Leitch è uno che al cinema bada al sodo.

Atomic Blonde è il primo film che firma come regista, e lo fa come un degno discendente di Vic Armstrong e Craig R. Baxley. Se questi ultimi si muovevano in un cinema ancora completamente analogico, Leitch sfrutta tutte le trasformazioni produttive che il cinema d’azione Usa ha sviluppato da Matrix in poi.
Ambientato a Berlino all’ombra del muro che sta per cadere, la bionda atomica del titolo è la tostissima Charlize Theron, incaricata di neutralizzare un doppiogiochista che passa informazioni ai russi. O forse no.

La traccia narrativa potrebbe stare su una salvietta di quelle che Menahem Golan utilizzava per firmare i suoi contratti con Godard o Cassavetes, ma quel che conta è il dispiego visivo di un armamentario vintage che riattualizza il neon dei primi anni Ottanta aggiornandoli alla lezione del cut-up da graffiti urbano. Tutto perfettamente tenuto sotto controllo con tanto di juke-box nostalgico che rielabora in varie versioni l’immortale 99 Luftballons di Nena.
Inutile dire che il film non perde affatto tempo per entrare nel merito dell’azione. I combattimenti corpo a corpo, feroci e coreografati al millimetro, si susseguono implacabili scongiurando il rischio della saturazione grazie a un’inventiva quasi bizantina.

La Theron si presta al gioco con un encomiabile spirito di dedizione menando come un fabbro bulgaro e trasformando qualsiasi oggetto le capiti fra le mani in un’arma letale.
Il gioco vintage-nostalgico di Atomic Blonde non si limita solo alle scenografie e alle canzoni. In fondo il film di Leitch è forse uno dei primi macrosintomi che Hollywood manifesta rispetto al regno arancione di Trump. In fondo quello che si dice, se si guarda oltre le botte e le esplosioni, è che si stava meglio quando c’era il muro. Tutto era più chiaro e anche il doppio gioco era più limpido. La follia era bilanciata equamente da entrambe le parti e tutto sommato lo status quo, nonostante i bizantinismi del potere e degli intrighi, era più mobile. Certo, questo lo si spiega poi a chi i carri russi ce li aveva in casa o a chi era tormentato dalla Stasi.

Ciò non toglie che a suo modo Atomic Blonde partecipa in maniera evidente di quella «Ostalgie», ossia nostalgia del blocco sovietico, che si è fatta largo in Germania, di fronte al venire meno delle promesse liberiste di Kohl e compagni. Senza esagerare la portata di implicazioni magari solo latenti, Atomic Blonde procede a un restyling molto sexy della Guerra fredda e soprattutto del grigiore sovietico in quello che ci sembra essere un esorcismo di tutte le variabili imponderabili dell’Arancione e di Kim, lassù al nord.
Leitch, dal canto suo, lancia qualche sasso, non nasconde la mano, salda comunque qualche conto ai russi, e nel happy end sceglie il suo campo dissipando purtroppo quell’ambiguità che sostiene il film e il personaggio della Theron. Ma tutto sommato, il biglietto lo si compra per Charlize e le botte. E quindi va bene così.