Se i soviet fossero stati così la rivoluzione d’ottobre non sarebbe finita com’è finita. Così come? Come Burnt Sugar the Arkestra Chamber. Che non è un soviet di operai contadini e soldati ma un soviet di musicisti: tre cantanti, due saxisti, un trombettista, due batteristi, un tastierista, un suonatore di oggettini vari e produttore di effetti vagamente elettronici, un bassista elettrico, un chitarrista elettrico, anzi due perché il leader e fondatore, Greg Tate, spesso fa il direttore e suona la chitarra senza mai mettersi in mostra. Leader? Sì, ma qui sono tutti leader e divi per una volta e per sempre. Si alternano alla guida del gruppo, della compagnia di suoni e visioni e teatro, dicono ai tre fiatisti che sarebbe bello un loro intervento, un pastoso ritmico riff, passano ai tre cantanti «perché non ci mettete quel bel coretto che abbiamo studiato ieri notte?». E avanti in questo modo, sono belli e tutti diversi, facce spiritate facce divertite facce solenni, si divertono, ancheggiano, comunicano gioia. Questo soviet non prende il palazzo d’inverno, è qui a Sant’Anna Arresi, nel Sulcis, Sardegna profonda, a prendersi la vita.

SUONI che sono una rivisitazione dissacrante del Porgy & Bess. Quest’opera di Gershwin è musica dei neri o dei bianchi, per i neri o per i bianchi? Polemiche a non finire quando andò in scena ma la Burnt Sugar decide di farla propria come black music che più black non ce n’è. Soul e r’n’b sono la base permanente del ritmo e dell’approccio. Quasi, visto che già nel secondo «quadro» si ascolta un calypso molto marcato. Tanto marcato, tanto scandito, da prendere la tinta black (nordamerica urbano) preferita dalla band. Black music evoluta, ogni tanto un po’ «spaziale» (alla Sun Ra) e spesso psichedelica. Gli assoli di chitarra elettrica di Ben Tyree echeggiano Jimi Hendrix. Ma c’è dell’altro: gli assoli di sax tenore di V. Jeffrey Smith echeggiano John Gilmore (il solista gli assomiglia persino fisicamente). E quindi c’è anche il free. Benvenuto.

IL «COMUNE» della black music – parziale e universale come quello del proletariato di un tempo e della moltitudine di oggi – è illuminato dalla «singolarità» di tutti i musicisti. Niente umiltà, pudore, austerità per didascalizzare l’unione. Il collettivismo è roba vecchia e deperita. Grande show. Tutto da vedere oltre che da ascoltare. I tre vocalisti fanno scena in modo speciale. Julie Brown, vistosa chioma afro, leggiadrissima, è la più lirica e riservata. Mikel Banks, con in testa uno chignon gigantesco, è soavemente ultragenere. Abby Dobson, capelli cortissimi quasi da skin, è sensuale e sfoggia l’emissione più varia e profonda. Fa da sola, attrice consumata, irridente, tutta la scena del dialogo tra Spotin’ Life, lo spacciatore, il malfattore, e Bess, sempre che la difficoltà di individuare i momenti dell’opera originale non abbia indotto all’errore il cronista. Summertime non è suonata o cantata integralmente: solo fatta intrasentire tra un preludio e l’altro. Invece It Ain’t Necessarily So esce fuori alla lettera dalla voce di Julie e le batterie di LaFrac Sci e di Marque Gilmore la incalzano senza stravolgerla.

IL FESTIVAL Ai confini tra Sardegna e jazz numero 34 parte bene con un cantante d’eccezione che si chiama Dwight Trible. Gospel e poetry sono la sua materia prima. Con il quartetto, la prima sera, lui è un predicatore ossessivo con voce educata e pause e modulazioni inattese. Rabbia e maledizioni e richiami amorosi. La gestualità è come di un uomo spiritato che per strada inveisce e chiede aiuto per i suoi dolori e per le sue denunce. Chissà se c’entrano i guru dell’America periferica o se c’entra di più il blues delle origini. A un certo punto, sorprendentemente, si trasforma in un crooner. Non proprio classico per via di certe deviazioni melodiche ma sempre crooner. Incredibile. Nella seconda sera lui e il geniale, superlativo percussionista Kahil El’Zabar danno vita a un concerto memorabile. Trible recupera lo scat, El’Zabar diffonde preziosità con tamburi africani e kalimba, il tempo è sospeso, l’atmosfera è di incanto.