Gli archivi non sono dispositivi statici ma performativi. Permettono di attuare nuovi processi generativi dei documenti in essi raccolti. Ad investigare proprio la performatività dell’archivio c’è ora la mostra milanese L’Inarchiviabile. Italia anni 70, ricognizione della scena artistica italiana di quegli anni attraverso duecento opere di sessanta artisti, provenienti da archivi e collezioni private del nostro paese. Anni in cui la cultura «eccede» fuori dell’ambito estetico con pratiche legate all’indagine sociale con una grande eterogeneità di linguaggi che la mostra analizza come una sorta di visual essay suddiviso per nuclei tematici.

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A cura di Marco Scotini, in collaborazione con Lorenzo Paini, la rassegna – visitabile fino al 15 giugno prossimo – ha inaugurato il calendario della nuova programmazione artistica di FM Centro per l’arte contemporanea. Il percorso espositivo si apre con la registrazione dell’emersione della moltitudine e del general intellect in cui gli artisti delegano al fruitore la realizzazione dell’opera – Franco Vaccari con le Photomatic d’Italia, Ugo La Pietra con l’inchiesta sociale Il desiderio della casa, il sit-in studentesco in piazzale Loreto a Milano ripreso da Uliano Lucas – e si chiude con la sala dedicata alla Comune di Parigi che raccoglie libri e partiture dell’opera lirica Al gran sole carico d’amore di Luigi Nono (dedicata alla Comune parigina), gli assemblaggi testuali di Nanni Balestrini, le foto delle fabbriche di Uliano Lucas, le teche di Piero Gilardi, dedicate alla militanza politica e all’anti-psichiatria, i documenti del Laboratorio di Comunicazione Militante, il film Il Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro 1976 di Alberto Grifi.

All’interno della mostra vi sono diverse opere formalizzate come atlanti, tassonomie, cataloghi e inventari. La tassonomia fotografica di Marcella Campagnano, per esempio, decodifica gli stereotipi femminili nella sala dedicata alla messa in discussione dei generi. L’opera è esposta accanto alle documentazioni fotografiche dei travestiti di Genova (i reportage realizzati da Lisetta Carmi), mentre nelle teche sono raccolti i testi di Mario Mieli, tra cui La traviata norma e altri saggi storici Lgtb. Oltre all’Atlante di Ghirri del 1973 è presentato poi l’archivio di Fabio Mauri Linguaggio è Guerra, composto da immagini di conflitti bellici, La Dobloure di Giulio Paolini, collezione di tele bianche che rappresentano se stesse e differiscono solo per il titolo che è scritto nel retro dell’opera che lo spettatore non può vedere, i Leftover di Baruchello (ossia le «scatole» che conservano tutto ciò che resta sul tavolo dello studio dell’artista in una determinata giornata). Viene proposto, infine, l’archivio di Zona, spazio fiorentino non profit, conservato da Maurizio Nannucci, uno dei suoi fondatori insieme a Paolo Masi, Mario Mariotti, Giuseppe Chiari, Alberto Mayr e Gianni Pettena, formato da produzioni editoriali e documenti multimediali. Basato sull’idea d’archivio è anche il film-catalogo Cesare Lombroso. Sull’odore del garofano di Gianikian e Ricci Lucchi, proiettato accanto a un altro loro lavoro di rara visione in Italia, il found footage film Essence d’absynthe, frammento di un film erotico girato negli anni Venti da Pathe Nathan.

Le istanze della soggettività femminile sono raccolte nella sala dedicata alle «anti-penelopi» con le tele cucite di Maria Lai, le creazioni intra-oggettuali di Marisa Merz, i libri con le scritture illeggibili di Irma Blank, l’Alfabeto della mente di Dadamaino, fogli che raccolgono i grafemi indecifrabili tracciati come forma di protesta contro l’eccidio dei palestinesi nel villaggio libanese di Tall el Zaatar che aveva fortemente impressionato l’artista, gli inventari gestuali di Ketty La Rocca, le opere segniche di Carla Accardi, accompagnate dai testi di Carla Lonzi, di Lea Melandri e da copie de L’erba voglio.

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Gli enunciati della sottrazione li troviamo invece nelle «foto non scattate» di Ugo Mulas, che sono una riflessione sul medium fotografico e un omaggio al rifiuto del lavoro duchampiano; nella porta della galleria Toselli di Emilio Prini che testimonia la scelta dell’artista di far chiudere la galleria per un mese, nel 1974, in occasione della sua personale intitolata Mostro. Una esposizione di oggetti non fatti non scelti non presentati da Emilio Prini, e nelle opere di Gino De Dominicis presenti in tutte le sale.

L’artista marchigiano diviene una sorta di Caronte che accompagna e traghetta il fruitore in una dimensione metafisica e problematica nei confronti del tempo e della conoscenza, come suggerisce la «statua» invisibile da lui realizzata nel 1979 intitolata Senatore, fantasma che rimanda al vuoto ideologico e all’immortalità del potere.