Alla fine il presidente ungherese János Áder ha firmato la legge sulle università straniere in terra magiara. I manifestanti scesi più volte in piazza, da domenica 2 aprile, gli avevano chiesto di non farlo, ma per il capo dello Stato danubiano la legge non è in contrasto con la Costituzione e non lede la libertà accademica.

Dopo la firma ha sollecitato il governo di Viktor Orbán ad uno scambio con le istituzioni interessate dal provvedimento, per garantire il rispetto delle nuove regole. Nel mirino la CEU (Central European University), l’università fondata dal magnate americano di origine ungherese George Soros nel 1991, per favorire la diffusione delle idee liberali nella regione.

La nuova legge metterebbe la CEU nella condizione di non riuscire più a immatricolare studenti dal primo gennaio del 2018 e sarebbe costretta a chiudere o a traslocare entro il 2021. La vicenda ha portato alla mobilitazione di diversi intellettuali progressisti e di studenti e insegnanti di altre università della capitale, i quali hanno partecipato alle proteste organizzate a sostegno della CEU (si parla di circa 90.000 persone alla dimostrazione di domenica 9 aprile).

Ufficialmente le altre università mantengono un atteggiamento improntato alla prudenza in questa nuova fase di tensione interna che vede l’opposizione di centro-sinistra accusare il governo di aver concepito una misura capace di attaccare non solo l’istituto fondato da Soros ma tutta l’istruzione superiore, la libertà di ricerca e il pensiero critico.

Soros non piace all’esecutivo ungherese; per il ministro dell’Istruzione Zoltán Balog è colui che finanzia sedicenti Ong impegnate in attività “antiungheresi” e a far entrare migranti musulmani nel paese. “Non lo permetteremo più” ha detto il ministro; e il magnate americano è anche quello che sta dietro a tutte le proteste svoltesi a Budapest contro le misure che condannerebbero la CEU alla chiusura.

Assurdità, per i sostenitori della protesta che, in questa nuova iniziativa di Orbánvedono solo l’intento di mettere a tacere qualsiasi voce critica o comunque dissonante dall’esecutivo, e di isolare sempre più il paese.

La questione ha suscitato le proteste di Washington, di Bruxelles e Berlino (c’è a Budapest anche un’università tedesca). Al Dipartimento di Stato Usa il governo ungherese aveva risposto con la piena disponibilità a trattare, visto che, secondo Budapest, le università straniere possono operare in Ungheria solo con un accordo intergovernativo con i paesi di origine.

Le rassicurazioni del governo non non sembrano aver funzionato con Washington. Orbán ha anche richiamato a casa l’ambasciatrice a Washington, Réka Szemerkényi, donna fedele al Fidesz, per non aver saputo migliorare i rapporti con gli Usa di Donald Trump. Pensare che Orbán aveva salutato con gioia la sua elezione di quest’ultimo come segnale della fine del liberalismo e dell’ipocrisia della “politically correct” di Obama e dei vertici dell’Ue.