Il porto greco di Kavala sorge lungo la costa settentrionale, 160 chilometri a est di Salonicco. Qui, nella notte tra domenica e lunedì è giunto uno dei primi traghetti destinati ad evacuare le isole egee. È anche uno degli ultimi trasferimenti di rifugiati verso l’Europa, così come stabilito dagli accordi tra Ue e Ankara, in base ai quali ora gli atolli greci diventano qualcosa di simile a centri logistici dove accogliere e respingere in Turchia i rifugiati in arrivo con i gommoni. Sul molo di Kavala si sono riversati 550 rifugiati, scesi in modo ordinato trascinando coperte e fagotti in cui avvolgono i pochi averi; 150 provengono dai campi gestiti da Frontex a Lesbo, 400 sono stati prelevati a Chios, mentre altre quattro imbarcazioni con circa 4500 persone hanno seguito la rotta per Eleusina e Pireo. Ad accoglierli al porto alcuni poliziotti, volontari e soprattutto molti abitanti di Kavala, i quali malgrado l’ora tarda hanno dato il benvenuto ai nuovi arrivati, destinati ai vicini campi di accoglienza di Drama, Eleftheroupoli e Nea Karvali. Fotis, greco di 29 anni è uno di loro, presente con la madre e alcuni amici al porto: «La Grecia è da sempre un paese di passaggio, l’accoglienza è nel nostro Dna, è un dovere. Gli altri paesi dell’Unione se ne fregano della Convenzione di Ginevra, è rimasta solo la Grecia a tenere alta la bandiera europea».

Stesso clima nella vicina cittadina di Nea Karvali, dove all’interno della struttura di accoglienza ricavata in un ex centro fieristico trovano spazio 731 persone. «Lo stabile è stato messo a disposizione gratuitamente dal proprietario», spiega Nikolaos Karakgisoglou vicesindaco di Nea Karvali cui spetta la gestione del centro. Non sa ancora dell’arrivo dei rifugiati da Lesbo e Chios, nessuno lo ha avvisato: «ospitiamo già molti rifugiati qui al campo, siamo al limite, non saprei proprio dove metterne altri», commenta mentre attorno un gruppo di curdi siriani festeggia Newroz, il nuovo anno. «Tutto funziona a dovere, anche se di tanto in tanto emergono tensioni tra i vari gruppi, in particolare nei confronti dei curdi, non so proprio come intervenire». Anche i cittadini di Nea Karvali hanno colto l’arrivo dei rifugiati con apertura. I volontari si alternano al campo nelle pulizie, poi portano viveri, vestiti e scarpe raccolti all’interno di grandi sacchi all’ingresso della struttura. All’arrivo dei primi rifugiati tre settimane fa il centro di accoglienza era ancora disorganizzato, le autorità tardavano ad attivare i servizi oggi presenti, pertanto la cittadinanza si è messa in moto spontaneamente, fornendo a proprie spese il necessario. Gli hot-spot dell’area di Kavala sono comunque sistemazioni di passaggio, e prima o poi gli occupanti saranno trasferiti in altri centri più grandi, destinati ad ospitare il 46.207 rifugiati presenti in Grecia.

Più a nord, nel grande campo di Idomeni continuano le manifestazioni contro la chiusura del confine. La prima è avvenuta sabato sera, quando 400 persone hanno marciato e urlato slogan all’interno della tendopoli. Proteste riprese domenica e proseguite ancora ieri, con un sit-in sulla linea ferroviaria e il blocco del passaggio dei rifornimenti di acqua e cibo da parte di un gruppo misto, cosa piuttosto rara viste le tensioni recenti, composto da siriani, curdi, afgani, pachistani e iracheni yazidi. Malgrado la presenza di trecento persone circa, incluse donne e bambini, la protesta è riuscita solo ad alimentare il diffuso senso di frustrazione. A provocare la reazione dei manifestati era stata la distribuzione avvenuta sabato di un volantino in greco, arabo e farsi da parte della polizia di Idomeni. «I confini sono chiusi. Cibo e alloggio sono disponibili nei centri di accoglienza. Non fidatevi di persone irresponsabili che vi mettono in pericolo. Non mettetevi nei guai per nessuna ragione» recita il foglio appeso un po’ ovunque, il cui messaggio sembra sia stato recepito.

Anche a ridosso della frontiera macedone, c’è chi (pochi per ora) ha gettato la spugna ormai convinto che i confini non saranno riaperti a breve. Qualcuno inizia a raccogliere i propri stracci dal fango e a partire per il sud, verso Atene, alla ricerca di un posto più ospitale in cui vivere l’attesa nel limbo greco. Mentre ai margini della tendopoli 25 persone si affrettano verso un vecchio autobus diretto alla capitale, poco più avanti un gruppo di ragazzi iraniani marcia nella stessa direzione. «Non ha più senso restare qui in queste condizioni, noi ce ne andiamo ad Atene per trovare un posto migliore». C’è pure chi inizia a valutare seriamente la richiesta di asilo alle autorità elleniche. È il caso di Hanis, 28 anni di Aleppo, giunto a Chios su un gommone dopo essere fuggito venti giorni fa ai bombardamenti della sua città: «voglio vivere al sicuro, sto pensando alla richiesta di asilo in Grecia per cercare qualche opportunità di lavoro, malgrado la difficile situazione economica. Non posso però vivere a lungo in un campo come questo, è troppo degradante».

Idomeni resta il simbolo della voglia di Europa covata da migliaia di migranti. Molti di loro restano fermi sulle stesse posizioni, a poche centinaia di metri dalla frontiera, convinti di riuscire a passare. Nel frattempo, mentre il sogno macedone si infrange sulla cancellata metallica presidiata dalle truppe di Skopje, all’interno del campo prende sempre più forma la prospettiva albanese e del passaggio in Italia.