La decisione del governo di Danimarca, condivisa dalla maggioranza dei danesi, di confiscare ai rifugiati i loro beni superiori al valore di circa 1350 euro, come contributo alle spese del loro mantenimento, qualche senso di colpa l’avrà provocato anche tra i suoi sostenitori. Tuttavia, i sensi di colpa si inchinano sempre alla «forza maggiore» (le reazioni impulsive alle difficoltà) e sono assai utili nell’arredo dell’auto-assoluzione: se si diventa inumani per «necessità», si torna umani con un po’ di dolore. Se le ferite che infliggiamo ai più deboli, sfociassero dentro di noi in un senso di vergogna, invece che di colpa, le cose nel mondo andrebbero meglio. La vergogna è la trasformazione della ferita dell’altro in ferita del nostro amor proprio: ci umilia la sua umiliazione.

L’incapacità di vergognarsi, di cui diamo prova ampia, è coperta con un principio considerato di buon senso: si deve rispettare la casa di cui si è ospiti perché l’ospitalità possa essere offerta. Questo non è chiaro come possa valere quando le relazioni di scambio e di buon vicinato sono sconvolte e mentre la casa gli uni la mantengono, gli altri l’hanno perduta. Le regole della buona educazione e del rispetto reciproco non valgono, quando le loro premesse sono sconvolte. Gran parte dell’Occidente è tentata a far sentire la voce del padrone con i suoi ospiti: «A casa mia comando io».

Sennonché, le regole di gestione della propria casa non sono più valide, se cambia rapidamente la composizione di chi la abita e diventa anche confusa la distinzione tra interno e esterno. In queste condizioni, l’unica alternativa al caos e all’arbitrio è il principio della fraternità universale: tutte le persone sono pari sul piano del desiderio, indipendentemente dalla loro differenza sul piano dei bisogni, delle capacità fisiche e mentali, del sesso, delle scelte sessuali, della cultura, della religione e della concezione del mondo. Ogni conflitto, derivante dalla differenza, può essere realmente risolto solo all’interno di questa prospettiva, che vede la differenza come condizione della persistenza e dell’appagamento del desiderio.

La differenza ci fa confliggere ma ci fa anche sentire desideranti e vivi.

A due condizioni:

a) che la differenza non sia confusa con l’estraneità, quando il più forte annienta il più debole che gli attraversa la strada;

b) che la differenza identitaria dell’uno non domini quella dell’altro, trasformando la loro coesistenza in annessione e sfruttamento. In entrambi i casi, la differenza di fatto svanisce: essa non ama la supremazia dell’uno sull’altro; cresce nell’eguaglianza.

L’occidente è convinto della supremazia dei suoi valori. La sua autoreferenzialità è contraddetta dal fatto che i valori fondamentali, dai quali emanano tutti gli altri (se non sono funzioni normative, strumentali), sono espressione della materia viva dell’umanità, non sono fabbricati da una cultura che li possiede. Coloro a cui condizioni storico-culturali hanno consentito un miglior riconoscimento e inquadramento di questi valori, dovrebbero spogliarsi di ogni senso di superiorità e diffonderli con umiltà, rispettandoli nelle loro relazioni con gli altri.

La supremazia occidentale poggia su un potere economico, politico e militare che dei valori etici fa tranquillamente a meno. È la grande contraddizione storica della democrazia: con l’esercizio del potere nelle sue relazioni esterne viola palesemente i principi della sua costituzione. Manifestazione di un’ambiguità del suo funzionamento interno, incompiutezza che l’Atene di Pericle ha compensato con l’arroganza. Non è andata bene.