La musica è sempre frutto del pensare, dell’agire e delle pratiche di molte persone assieme. Nella mitologia classica esistono le muse, non una musa al singolare. Diversi pregiudizi idealistici ancora azzoppano la nostra capacità critica di pensare alle relazioni tra persone come motore del cambiamento, piuttosto che ai geni solitari che rovesciano sistemi estetici giunti alle loro ultime ore asfittiche. In questo, siamo una coda funzionale di un romanticismo mal inteso. Eppure certe figure, nella storia della musica, sembrano accollarsi anche involontariamente onere e onore di rovesciatori individuali di paradigmi consolidati, guastatori scelti della bellezza che aprono spiragli per far filtrare la luce del nuovo dove la luce s’era spenta, o attenuata sino alla penombra. Lo fanno potendosi appoggiare anche sulle energie, il coraggio e la solidarietà altrui, e qui forse sta il compromesso tra concezione solipsistica del genio, e forza incandescente del nuovo che scaturisce da energie collettive. Astor Piazzolla, padre nobile del «nuevo tango» è stato una persona così. L’11 marzo 2021, se fosse stato ancora su questo pianeta, avrebbe compiuto cento anni. E di sicuro, col carattere forte e a tratti anche un po’ sprezzante che si ritrovava avrebbe avuto, come di consueto, sia argomenti polemici, sia insospettabili parole d’affetto per i colleghi, e per la musica che gli girava attorno.

STUDI CLASSICI
Chi rovescia un paradigma estetico così consolidato nei decenni come il tango, così monolitico da apparire quasi come il sunto della presunta immobilità di certe musiche scaturite dall’alveo popolare, (quando invece le faglie telluriche del cambiamento sono ovunque e in ogni momento) vuol dire che quel paradigma ha saputo conoscerlo, abitarlo, frequentarlo nei più riposti recessi. Astor Piazzolla era nato a Mar del Plata da genitori di origine italiana: il padre di ascendenze pugliesi da Trani, la madre da Massa Sassorosso, nella Garfagnana lucchese. I primi anni della sua vita Astor Piazzolla li trascorse a New York, subito incoraggiato dal padre agli studi musicali, per un talento che, evidentemente, già era palese: le piccole dita sul pianoforte, un maestro che era stato allievo di Rachmaninov, e dunque un viatico completo per le note classiche. Poi arriva l’innamoramento per il bandoneon, la fisarmonica dalla diteggiatura «impossibile» inventata a metà Ottocento da un ingegnere tedesco modificando la konzertina come alternativa economica all’organo nelle chiese luterane, e per le processioni: scarsa o nulla fortuna come strumento per la liturgia, progressiva e immensa fortuna, invece, quando a partire dalla metà dell’Ottocento fu importato in Argentina, diventando quasi il simbolo del tango in progressiva definizione, una delle tante musiche afroamericane scaturite dal «clash» storico (in conseguenza dello schiavismo) tra culture nere, autoctone e dall’Occidente.
Nel ’34, quando New York è invasa dalla febbre matura dello swing, approda in città Carlos Gardel, «la» voce del tango, interprete principale del musical El dìa que me quieras di John Reinhardt. Il giovanissimo Astor viene assunto come comparsa, Gardel non tarda a accorgersi che il ragazzo sa maneggiare il bandoneon già come un consumato musicista bonarense. Gardel cerca di accaparrarselo per un tour, il ragazzino prodigio, ma papà Piazzolla è irremovibile. Il tango, orecchiato sui dischi della nostalgia di casa del padre nella New York musicale di Ellington, Benny Goodman e Cab Calloway, entra a passi prepotenti nella vita di Astor quando la famiglia torna in Argentina. È la seconda metà degli anni Trenta e Astor, accantonati gli studi di ragioneria che lo gettano in depressione imbocca la strada della musica, suona nei cabaret, studia con febbrile attenzione come si muovono, nelle parti orchestrali e solistiche, i musicisti dell’Orchestra di Pichuco che va a ascoltare tutti i pomeriggi al Café Germinal.
Un giorno il bandoneista è assente, Astor si fa avanti, imbraccia il mantice, e con assoluta padronanza dimostra di conoscere a memoria ogni singolo brano e ogni arrangiamento dello sterminato repertorio dell’Orchestra. C’è di più, ed è già un bruciante indizio di futuro: Astor Piazzolla non si accontenta di suonare la parte scritta, appena ne intravvede la possibilità comprime in una manciata di secondi fioriture d’improvvisazione sul bandoneon. Uno spazio di libertà poco gradito, in un mondo così strutturato. Lo stesso limite che pativano i grandi e giovani solisti delle orchestre swing: alla sera, per improvvisare davvero, si inventarono in quegli stessi anni il bebop nei club della 52° Strada di New York.

DOPOGUERRA
Nel 1946, quando finalmente si placano i venti di guerra Astor Piazzolla, a venticinque anni, ha la sua prima Orchestra: il tango già non è più la milonga da postriboli, tipacci e donne fatali e pericolose amato, e fors’anche parecchio idealizzato dall’intellettuale Jorge Louis Borges, che da un concerto di Astor Piazzolla se ne andrà stizzito, dichiarando che «quello non era tango». È diventato al contempo più romantico e più ritmico, sporto in avanti, e allora Piazzolla sente la necessità di approfondire, di studiare ancora. Ha cominciato a prendere lezioni da Alberto Ginastera, su suggerimento di Arthur Rubinstein, cui Piazzolla si presenta, con l’innocenza sfacciata dei suoi primi anni, con un fascio di partiture sotto il braccio. Piazzolla scrive, compulsivamente: ouverture, sonate, sinfonie. Tutte cose che rinnegherà, poi («vomitavo un milione di note al secondo»), ma formative.
Grazie a una borsa di studio approda in Europa, ammesso al Conservatorio di Parigi, allievo per diciotto mesi di Nadia Boulanger che già aveva formato Bernstein, Copland, Menuhin. La musicalità del giovane è assoluta, ma è la Boulanger stessa, esaminate con occhio critico le partiture «classiche» di Piazzolla, corrette ma del tutto derivative, a indicare al ragazzo la sua vera strada: quella del tango. Mutatis mutandis la stessa cosa che si era sentito rispondere con il jazz George Gershwin a caccia di nobilitazione «classica». S’era fatto passare per pianista, Piazzolla: quando la Boulanger scopre che suona il bandoneon, gli prende la mano e lo apostrofa così: «Pezzo d’idiota! Questo è Piazzolla».
Tornato in Argentina Astor Piazzolla, sino a quel momento convinto di essere un musicista di serie b, è pronto per il «terzo salto» del tango, quella terza fase in cui, e di nuovo in parallelo con molte vicende del jazz, il tango può anche restare una musica da danza, ma accorpandosi le fratture, le lacerazioni, i contrasti drammatici e a volte tragici di una società che, dopo due guerre mondiali, stenta a trovare fiducia in sé stessa, all’ombra delle grandi ideologie contrapposte e (apparentemente) monolitiche. Lo dice lui stesso in un’intervista: «Con gli anni Cinquanta inizia tra i contrasti un’evoluzione che è quasi una rivoluzione, e il rivoluzionario ero io». L’inizio di quella strada lastricata di difficoltà, incomprensioni, ma anche svettanti momenti di luce in cui Piazzolla così definisce il suo tango: «Una musica da camera, popolare, che ha origine nel tango e può assumere molti volti diversi. Se fossi stato un musicista con temperamento non avrei potuto fare quello che faccio. Posso usare una poliritmia, un bitonale o un tritonale, ma non vado oltre, per mantenere sempre un senso ritmico. Mantengo una swing di fondo e la parte alta la orno con la musica. Poi lavoro sull’armonia, sui controtempi, sul contrappunto fra due o tre strumenti, tutte cose molto affascinanti». A ben vedere, un percorso ancora una volta esattamente in parallelo con quanto stanno sperimentando i jazzisti della West Coast e gli allievi di Lennie Tristano, sulla East Coast. In più c’è già una dirompenza, un artigliare le note e i profili melodici, un fondo di squassata drammaticità quando coltiva i contrasti, e all’opposto di esausto languore, quando azzecca le melodie rapinose, che Piazzolla continuerà a evidenziare in tutta la sua opera successiva e sino agli esiti estremi ed espressionistici dei suoi ultimi concerti e incisioni.

UNA VOCE ITALIANA
Il tango è ormai pressoché sganciato dalla sudditanza al canto: è musica pura, e spesso spinosa. Anche se Piazzolla saprà ritrovare la «voce» del tango, scovandola in Italia e non in Argentina: è Milva, la Milva brechtiana dei suoi anni più teatrali, gli Ottanta. L’amico di Astor, Ernesto Sabato, forse il suo pendant in letteratura, per gli esiti focosi, tragici e e lirici assieme sulla pagina, così definisce la musica di Piazzolla: «Le sue note hanno gli occhi, il naso e la bocca del nonno, il Tango», e lui chiosa, sarcastico: «Tutto il resto è mio». Nel 1960 fonda il suo Quinteto, un gruppo che, giustamente, qualcuno ha voluto accostare al percorso del coevo Modern Jazz Quartet di John Lewis. Altri, però, lo accusano di «europeizzare» il tango, allontanandolo dalla sua originaria scaturigine porteña: lui, stizzito, risponde che «quanto più si dipinge un paese, tanto più si dipinge un mondo. Sentire tutto il folklore e la particolarità di un’altra cultura è la vera forza».
Piazzolla ha ormai i «suoi» gruppi, l’Octeto Buenos Aires, il Conjunto 9, il Sestetto Nuevo Tango, e il nome comincia a circolare dall’altra parte dell’Oceano. Iniziano i tour e i soggiorni europei, sposa la cantante lirica e presentatrice televisiva Laura Escalada, prende casa a Parigi, si ferma spesso in Italia. Qui nasceranno i dischi con musicisti italiani e il nuovo azzardo delle chitarre elettriche. Stringe un sodalizio con il regista Fernando Solanas, per cui scriverà le musiche dei film Tangos/El exilio de Gardel e Sur, incontra in studio il formidabile sassofonista baritono Gerry Mulligan, e con lui incide Summit, un disco che marca il matrimonio perfetto (e inevitabile) tra tango e jazz, peraltro celebrato, di recente, con una rilettura appassionata dal sassofonista argentino ma ormai a residenza fissa italiana Javier Girotto, che da Piazzolla molto ha preso, nella carica di pathos del suo suono. Arrivano anche le opere, negli anni Sessanta, come la premiata Maria de Buenos Aires, con il poeta Horacio Ferrer e un notevole Oratorio, sempre con Ferrer, composto a Parigi, El pueblo joven per soli, voce recitante, bandoneon, archi e percussioni. Negli anni Settanta e Ottanta è un fuoco vivo di attività: incide miriadi di pezzi anche in Italia, registra per la Rai diverse trasmissioni, con la nuova «eresia» di formazioni che comprendono la batteria (Tullio De Piscopo, tra gli altri), chitarre elettriche, basso, organo Hammond: con questo organico nasce la prima versione del celeberrimo Libertango. Forma il Conjunto Nuevo. Lo contatta anche Bernardo Bertolucci, per curare gli arrangiamenti di Ultimo Tango a Parigi con il sassofono sanguigno di Gato Barbieri, che per ironia della sorte ha il suo stesso soprannome, «Il Gatto». Lui, sdegnoso, risponde che è un musicista, non un arrangiatore, e saluta secco. Tre anni dopo, ha raccontato Bertolucci, s’è sentito suonare alla porta della casa di Trastevere, e s’è trovato di fronte Astor Piazzolla con un 45 giri in mano: si intitolava, ironicamente, El penultimo tango, e Piazzolla glielo porge dicendo: «Quel rigurgito di egotismo è stato uno dei più grandi errori della mia vita».

PER IL CINEMA
Il cinema c’entra però, e molto, nella fase finale della carriera di Piazzolla: oltre ai film citati con il visionario Solanas, Astor Piazzolla scrive oltre cinquanta colonne sonore, tra le quali anche quella per l’Enrico IV di Marco Bellocchio, e per film con Jeanne Moreau, Trintignant, Delon. Quasi musicalmente bipolare l’ultimo scorcio di attività dell’uomo con il mantice del tango tra le braccia: da un lato Piazzolla scrive sempre più brani impegnativi che lo vedono davanti a un’orchestra classica come solista, come Concierto de Nacar, Concierto para Bandoneon, Tres Tangos for Bandoneon and Orchestra, la Suite Punta del Este), dall’altra, quando si presenta sui palchi con i gruppi ristretti, attizza un fuoco violento e travolgente, che del tango atavico ha la passione squassante, ma rivestita di panni rabbiosi, lacerati, crudi, dissonanti, quasi, per riprendere un titolo di un suo brano celebre, volesse imitare i morsi violenti dello «escualo», e esorcizzare la sua massima paura: fermarsi. Lo ferma un ictus, che per diversi mesi lo inchioda, e lo porta alla morte, a settantuno anni. Dal 2008 si intitola a lui l’aeroporto di Mar del Plata, per decisione dell’allora presidente Cristina Fernàndez de Kirchner: continua a volare tra le sponde dell’Oceano il tango urticante di Astor Piazzolla.

FUORI I DISCHI
La Camorra: la soledad de la provocación apasionada (American Clavè, 1989)
Prodotto da Kip Hanrahan, genio delle ibridazioni musicali, e musicista a propria volta coinvolto in progetti che hanno rilanciato l’infinito ponte di note tra America del Nord e America Latina, La Camorra di Piazzolla, uscito nel 1989 è un disco di straordinaria potenza evocativa. Il sottotitolo tradotto è «La solitudine della provocazione appassionata», ed è l’ultima registrazione in studio (a New York) del suo formidabile Quintetto. Il brano che intitola è in tre parti, è stato scritto tra l’87 e l’88 e la parola non è da intendersi nel nostro senso: sta per «lite», «rissa». Un particolare curioso è che la linea tematica della suite deriva dal motivo che si sente cantare dai ragazzi nel film dedicato alla leggendaria Woodstock del ’69: è la «danza della pioggia». Piazzolla trasfigura il tutto da par suo.

Live At Cine Teatro Gran Rex de Buenos Aires (Itm Media, 1992)
Piazzolla che suona «in casa», davanti a un pubblico ormai decisamente convinto e schierato dalla parte del bruciante «nuevo tango». Con Pablo Ziegler al piano, Fernando Suarez Paz al violino, Oscar Lopez Ruiz alla chitarra e Hector Console al contrabbasso. Sessanta minuti incendiari con una versione favolosa del Concierto para Quinteto, e la tripletta Muerte del angel, Adios nonino e Libertango che ne fanno una sorta di perfetto Bignami del Piazzolla maturo. In più, per chi ama le composizioni estese e tematiche del bandoneonista, le sue «stagioni» Invierno, Otoño e Verano Porteño. La registrazione, impeccabile, precede di pochi giorni il Natale del 1981.

57 minutos con la realidad (Intuition, 1996)
I «57 minuti con la realtà» che parafrasano un suo titolo qui compreso (dove i minuti sono tre) sono uno splendido abbozzo, uno schizzo impreciso ma fumigante di dove sarebbe andata la musica di Piazzolla, se il Signore delle Milonghe gli avesse concesso qualche altro anno. Kip Hanrahan ha curato con grazia e acribia certosina il lavoro di ri-cucitura di questi materiali frammentari incandescenti, facendone scaturire un piccolo e struggente capolavoro finale. La formazione è l’ultimissima, quella dove Piazzolla aveva ammesso un secondo bandoneon, Daniel Binelli, quasi uno specchio in cui guardare la propria musica esplodere.

The Rough Dancer and the Cyclical Night (Tango apasionado) ( Nonesuch, 1989)
Registrazioni a New York dall’agosto e settembre 1987, medesimo periodo de La Camorra. Un «labirinto di vetro e di specchi», per dirla con le parole usate nelle note da Fernando Gonzales. Qui Piazzolla, con un doppio salto mortale ritorna alle origini mitiche del tango oscuro e lascivo, quello che affascinava Borges, e il «rozzo ballerino» che passa le sue «notti cicliche» è il simbolo di qualcosa di pericoloso, di una minaccia incombente che travalica i decenni della mitografia del tango. Formazione con violino, piano, sax contralto e clarinetto, basso, e la chitarra elettrica serpentina di Rodolfo Alchourrón.

Kronos Quartet Astor Piazzolla Five Tango Sensations (Nonesuch,1991)
Un disco breve come un sospiro, ma di un’intensità ragguardevole. Un bel modo, per Piazzolla, per rimettere a posto la questione di una vita, quella di essere stato anche un compositore formato in senso classico, e al contempo di aver saputo e voluto penetrare, invece, nelle pieghe più riposte e nelle nicchie più promettenti e visionarie del tango come musica di ascendenza afroamericana. Bandoneon e quartetto d’archi sulle composizioni di Piazzolla legano con una naturalezza apparente che è invece, come sempre, frutto di una calibratura timbrica pressoché perfetta: raggiunta, raccontano i membri dello storico ensemble, in appena un paio d’ore totali per conoscere le parti, accendere i microfoni e incidere.