Anche le elezioni amministrative di domenica 5 giugno vedono affermarsi quale «primo partito» quello dell’astensione, in crescita peraltro (nel complesso, gli astensionisti sono aumentati di 5 punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti). Ma siamo sicuri che si tratti di una crisi della partecipazione politica? O non dovremmo piuttosto parlare di crisi di legittimità dei partiti, non più percepiti quali vettori di partecipazione politica efficace? Non sarebbe quindi meglio parlare di crisi della partecipazione elettorale? Se guardiamo alla società contemporanea, è possibile notare la compresenza di processi diversi: alla crescita dell’astensionismo si accompagna l’aumento di altre forme di partecipazione, che la scienza politica tradizionale ha definito «non convenzionali», basandosi sulla prospettiva che la manifestazione tipica di soggettività politica del cittadino consista nell’andare a votare alle scadenze periodiche, per poi rimanere sostanzialmente inerte.
Tuttavia, mentre la partecipazione elettorale diminuisce, nella società si diffondono nuovi movimenti, gruppi ambientalisti e di consumo critico, comitati locali che sovente si muovono fuori dai canali consueti della rappresentanza. Spesso queste manifestazioni vengono etichettate attraverso la definizione fuorviante di «antipolitica», solo per il fatto di nascere e articolarsi fuori dal perimetro dei partiti tradizionali. Lungi dal far comprendere meglio la natura di tali fenomeni innovativi, la definizione di «antipolitica» spesso riflette la diffidenza diffusa in parte del ceto politico e di quello intellettuale verso tutto quanto esula dalla politica convenzionale e dall’offerta politico–partitica tradizionale.

Risulta infatti difficile negare che il movimento anti-Ttip, i gruppi di acquisto solidale o i comitati in difesa dell’ambiente pongano questioni fortemente politiche. Si tratta di un mondo eterogeneo, che purtuttavia spesso svolge spesso la funzione di «politicizzare le politiche pubbliche», secondo un’efficace definizione di Giovanni Moro, ossia di rimettere nei processi decisionali voci altrimenti escluse. Non è affatto detto che queste forme di soggettività politica non possano poi riversarsi, almeno in parte, nei canali della rappresentanza partitica-parlamentare, ove ve ne sia data l’occasione; ossia quando si presenti l’opportunità di rappresentare anche in sede istituzionale i conflitti che gruppi e movimenti fanno affiorare.
La «narrazione» neo-liberista tende a rimuovere il conflitto e, pertanto, a considerare quali anomalie passeggere (e fastidiose) le diverse forme di contestazione; nella patria di Machiavelli dovremmo invece sempre ricordare che il conflitto è consustanziale alla politica: ad esempio, il conflitto tra élite e cittadini è divenuta una linea di frattura acutissima, a seguito del discredito di cui oggi godono le classi dirigenti degli Stati nazionali che faticano a governare i processi globali, determinando ciò che troppo facilmente è stata definita come l’emergenza populista.
Un’altra linea di frattura attuale è l’immigrazione. E spesso, com’è accaduto in Austria di recente, l’avversità all’immigrazione si somma a quella verso le «caste».
Tuttavia, la sfiducia e la critica, nei confronti delle classi dirigenti non sempre si salda con la protesta anti-immigrazione e non sempre è destinata a gonfiare le vele dei partiti della destra radicale.
La crisi economica che dura dal 2007 e le politiche di austerità stanno provocando una profonda ridefinizione della sinistra in tutta Europa. Pur con tutte le differenze del caso, in Grecia con Syriza e in Spagna con Podemos si sono affermate nuove formazioni di sinistra più radicali, ma non estremiste, che hanno contestato le forze politiche tradizionali, comprese quelle appartenenti all’Internazionale socialista, considerate incapaci di offrire proposte alternative all’austerity.

L’Inghilterra ha seguito altre dinamiche: la stabilità del sistema (bi)partitico britannico non ha consentito la nascita di nuove formazioni significative, ma il socialista radicale Jeremy Corbin è arrivato alla guida del Labour Party, conquistando la base del partito con la sua proposta contraria alla «Terza via» e all’eredità di Tony Blair. In altro contesto, anche Bernie Sanders in America è parte di una tendenza critica rispetto alla crisi della globalizzazione neoliberale: un Senatore del Vermont, settantaduenne, ex hippy, che si definisce socialista, si presenta alle primarie del Partito democratico e ottiene una valanga di voti, soprattutto fra i più giovani. Un segnale da non trascurare.
Queste esperienze nascono dalla critica dell’élite partitica che ha sostenuto politiche di austerity o neoliberali . Ma, a differenza di quelle di destra (e del Movimento Cinque Stelle in Italia), tali critiche non si saldano alla linea di frattura anti-immigrazione. Bensì puntano il dito contro le politiche macroeconomiche che producono disuguaglianza, denunciano l’impoverimento del ceto medio e l’aumento della distanza fra i ricchi e i poveri della società.
I risultati elettorali ci dicono che la sfiducia aumenta, mentre nei prossimi mesi vedremo se ci saranno cambiamenti nel mondo partitico che porteranno alla nascita di soggetti interessati a tali questioni anche in Italia, oppure se il Movimento Cinque Stelle manterrà il monopolio delle forme di protesta.