«Il segretario del Pri Spadolini ha tra l’altro ricordato che l’astensione critica tenuta dal suo partito nei confronti del governo Fanfani venne imposta dall’intima contraddizione fra l’originario programma governativo e quello che poi fu concretamente approvato dai quattro partiti della coalizione». Astensione critica, ben tornati nel 1983. Quando Luigi Di Maio non era ancora nato e il 32 per cento lo faceva la Democrazia cristiana.
Trentacinque anni dopo, per vedere finalmente la luce, il primo governo della neoproclamata (da Di Maio) «Terza Repubblica dei cittadini» deve recuperare le formule più temerarie della prima Repubblica. Quella dei partiti. Recuperare e peggiorare, anche perché il copyright non è più di Giovanni Spadolini ma di un altro politico e giornalista, uno dei tempi nostri. Con lo stesso nome, una corporatura ormai simile ma nel curriculum la direzione di Studio Aperto al posto di quella del Corriere della Sera, si tratta di Giovanni Toti.

La formula esatta coniata ieri dal governatore Mediaset, per scongelare infine la diciottesima legislatura, di aggettivi ne ha due: «Benevola astensione critica». Formula più barocca ma almeno con qualche senso, sconfinando la semplice «astensione critica» nella tautologia. Berlusconi insomma, nega il voto di Forza Italia al governo Salvini-Di Maio o del loro «terzo uomo», ma non rompe per questo l’alleanza «storica» con la Lega. Lascia fare. Mettendosi in disparte, e chi ci crede è un bischero. O è Di Maio.

Il Cavaliere discreto è una figura retorica impossibile, un ossimoro assai più potente della «astensione benevola». Formula che, sia detto senza volere per questo ridimensionare il genio di Toti, aveva già percorso le aule parlamentari. Uscendo proprio dalla vena di Berlusconi, che non aderì ma neppure sabotò quando nel 1997 si trattò di votare la riforma della giustizia in commissione bicamerale. Quella «bozza Boato», patrocinata da D’Alema e interpretata da generazioni di complottisti come la prova dei più sordidi traffici tra Arcore e Botteghe Oscure (eh sì, ancora), non venne in realtà mai votata dal «Polo delle libertà». Ma, appunto, favorita con un’astensione. «Benevola».
Il precedente può forse tornare d’attualità, se è veramente sulle riforme che Berlusconi si è voluto garantire. Ipotecando per Forza Italia, in cambio della sua condiscendenza, la presidenza della commissione che dovrà (dovrebbe) cambiare per la terza volta in tre anni la legge elettorale. Uno sguardo ai rapporti di forza nel centrodestra suggerisce però di lasciare da parte la suggestione storica: più che alle riforme il Cavaliere deva aver pensato a una decente buonuscita.
La convenienza pratica dell’accordo rende sfocato anche il paragone con il famoso governo della «non sfiducia», formula che Andreotti inventò per se stesso nel 1976. Il comunicato di Berlusconi, ieri sera, la riecheggiava – «non potremo certamente votare la fiducia» – ma le spericolatezze tattiche e lessicali in questo caso sono tutte al servizio degli interessi della coalizione di centrodestra, non del «paese».

Assai più spericolato, in fondo, è stato Di Maio, il cui visino di «capo», modellato nei riti del maggioritario, è finito rovinato dalle liturgie proporzionalistiche. «Su Di Maio premier non si tratta, senza lui a palazzo Chigi non c’è nessun governo», hanno ripetuto per due mesi i grillini. E lo stesso prescelto, pochi giorni fa, ha spiegato ai suoi parlamentari di non poter fare alcun dietrofront: «Ve lo immaginate che direbbe la gente se presentassimo un altro candidato al posto di chi ha avuto 11 milioni di voti?». La gente lo vedremo, intanto è stato lui a dire che «la mia candidatura non è mai stata un ostacolo».
Non da meno i leghisti, che hanno sempre indicato la «formula Monti» come la fucina di tutti i mali, e adesso propongono per tenere insieme alleanza e potere la stessa formula con l’inversione delle parti, loro in maggioranza e Forza Italia fuori: «Sarà un Monti rovesciato». Come un cappotto, un Loden naturalmente.
La storia si ripete in farsa, è stato già detto. Ma è incredibile come proprio nel giorno in cui l’arcinemico Berlusconi si decideva a far partire il primo governo grillino, i senatori grillini fossero tutti a lezione di training autogeno da uno psicologo motivatore. Il quale ha confessato di rivolgersi in genere alle aziende, «ma il gruppo parlamentare M5S è come una grande azienda». Anche questo è stato già detto.