«In mezzo alla gioia di una nazione che ha pagato duramente il diritto di proseguire la costruzione del socialismo, c’è – tra tanti altri – questo buco nero: la morte di un bambino nell’odio e nella disperazione. Nulla, neppure il comunismo a venire riscatterà questo». Così Jean-Paul Sartre nel settembre 1962 in una lettera indirizzata a l’Unità aveva replicato alle accuse di vuoto preziosismo formale rivolte da Ugo Casiraghi all’Infanzia di Ivan, il primo lungometraggio di Andrej Tarkovskij, Leone d’oro quello stesso anno a Venezia. Incrociando le lame con chi aveva scorto nel film un mero tradimento estetizzante al canone del realismo socialista, il filosofo parigino dimostrava di averne colto appieno la profonda valenza eversiva, certo non riducibile al solo livello stilistico. La vicenda tragica dell’orfano dodicenne Ivan, staffetta partigiana ed esploratore per l’Armata Rossa, scardinava infatti la narrazione eroica della Grande Guerra Patriottica fino ad allora in auge, introducendovi temi scomodi ed eppure ineludibili come la dimensione traumatica dell’esperienza bellica e i costi sociali e umani del conflitto. Nel contempo, l’adozione di una prospettiva infantile, estranea alle categorizzazioni astratte dell’età adulta, consentiva una immersione panica nell’hic et nunc della guerra, spalancando un vero e proprio vaso di Pandora di immagini oniriche e spunti lirici difficilmente conciliabili con i cliché ufficiali.
Che il punto di vista dei bambini fosse la vera pietra d’inciampo sul tracciato di un discorso fossilizzato e unilaterale che nel corso dei decenni si era rivelato sempre meno in grado di includere i racconti dei protagonisti in carne e ossa, lo dovette intuire anche Svetlana Aleksievich, la quale nel 1985 diede alle stampe un intero volume costituito esclusivamente da frammenti di interviste con semplici cittadini sovietici che, all’epoca dell’invasione nazista, avevano dai quattro ai quattordici anni. Gli ultimi testimoni, ora edito da Bompiani nella traduzione di Nadia Cicognini (collana «Overlook», pp. 320, euro 19,00), prosegue idealmente la ricerca di uno sguardo differente sul conflitto, già intrapresa dalla giornalista bielorussa con La guerra non ha un volto di donna, tradotto sempre per Bompiani l’anno scorso da Sergio Rapetti. Volume che, oltre a un’indubbia contiguità cronologica (varie peripezie editoriali fecero sì che uscisse anch’esso nel 1985), condivide con Gli ultimi testimoni anche il presupposto secondo cui determinati soggetti – donne e bambini, per l’appunto – sarebbero estranei non solo all’altisonante narrazione mainstream elaborata dagli uomini combattenti e vittoriosi, ma anche alla guerra in quanto tale, in virtù di una loro, per così dire, fisiologica e innata immunità. Se quest’ultima asserzione, alla luce attuale del reclutamento di bambini-soldato in tante parti del mondo, può essere comodamente relegata nel novero delle pie illusioni, d’altro canto resta prezioso lo sforzo di Aleksievich di documentare l’ottica di coloro che, all’epoca, fronteggiarono la guerra completamente sprovvisti (o quasi) di quell’armamentario ideologico-concettuale che consentì agli adulti, bene o male, di conservare una parvenza di integrità psichica.
Al contrario infatti dei veterani che, come scrive Catherine Merridale nel suo Ivan’s war: Life and Death In The Red Army, erano in genere capaci di imporre un ordine alla propria esperienza bellica, articolandola in termini accettabili per se stessi e per gli altri, gli ex bambini ascoltati a distanza di decenni da Aleksievich retrocedono faticosamente al loro io di un tempo per restituire una immagine della guerra dove il senso della perdita totale di ogni punto di riferimento razionale o affettivo prevale su qualsiasi griglia interpretativa sovrapposta a posteriori.
Le pagine migliori del libro sono proprio quelle in cui la dimensione individuale del trauma riemerge in quella stessa allucinata gamma simbolica che spinse Sartre nel 1962 a coniare per L’infanzia di Ivan la categoria inedita di «surrealismo socialista». Contrassegnato da quelle scelte stilistiche che ricorreranno poi in tutta l’opera a venire della Aleksievich (su tutte, l’«invisibilità» dell’autore che si limita a orchestrare le voci raccolte), Gli ultimi testimoni risulta particolarmente convincente proprio in virtù del contrasto tra l’esemplarietà delle situazioni che si ripresentano pressoché invariate da un intervistato all’altro e l’unicità dello sforzo necessario a ognuno per articolare il proprio dramma privato. Malgrado il ripetersi di motivi onnipresenti (il primo giorno di guerra, la partenza del padre per il fronte, l’allontanamento dall’ambiente domestico, la morte di uno o di entrambi i genitori), l’evento traumatico attorno al quale ruota ciascun racconto non può infatti che restare strettamente individuale. Da qui la potenza spesso lancinante di questa sequenza di voci che non si compongono in un coro, ma interrogano singolarmente lo spazio vuoto della perdita e del lutto secondo una modalità cui allude anche il sottotitolo dell’edizione rivista del 2007, «Assoli per voce bianca».
Il lutto non si identifica qui solo con la scomparsa delle persone care, bensì anche e soprattutto con la perdita di una parte di sé, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato – in una parola cioè dell’innocenza. La cesura incolmabile che la guerra introduce tra il «prima» e il «dopo» acquista una sua particolare pregnanza nelle tante storie degli orfani traumatizzati che hanno dimenticato il loro cognome o, addirittura, il loro nome. «Nella nostra casa per l’infanzia c’erano undici Tamara: Tamara Ignota, Tamara Sconosciuta, Tamara Anonima, Tamara Grande e Tamara Piccola. Così le avevamo chiamate». Oppure: «Venticinque anni dopo la fine della guerra ho ritrovato la mia unica zia sopravvissuta. Mi ha chiamata con il mio vero nome e per tanto tempo non sono riuscita ad abituarmi. Quando mi chiamavano, non rispondevo». Se l’oblio preserva dal trauma, d’altronde rende anche impossibile ricongiungersi con il proprio io di un tempo: sintomatica è, per esempio, la storia del bambino che non riconosce più il padre tornato dalla guerra e, sconvolto dalla sua improvvisa apparizione, è costretto ad accertare sui documenti l’identità di quell’«estraneo».
Altrove, il ritorno alla normalità sembra, almeno apparentemente, più agevole e si lega in genere alla riscoperta dell’esperienza del gioco, a volte con gli oggetti «nemici» che i padri portano a casa come trofeo dalla Germania («Non riuscivo a capire come potessero essere tanto belli i giocattoli tedeschi»), ma più spesso con granate inesplose trovate per terra che conservano intatto tutto il loro oscuro potenziale distruttivo. La stessa illimitata immaginazione che aveva permesso ai bambini di credere di essere in grado di sfuggire alla guerra, trasformandosi in animali e acquattandosi nei boschi, si ritorce paradossalmente contro di loro in tempo di pace. Lo dimostra il racconto del piccolo Dima, che ha paura di vedere i trattori del kolchoz diventare di colpo carri armati ed esplodere, solo perché sono fatti del metallo fuso dei rottami bellici. Resta incancellabile, anche a distanza di anni, il senso di una minaccia sempre imminente. Dalla guerra, come da un cerchio magico, non si esce, ed è questa consapevolezza a proiettare gli ultimi testimoni di Aleksievich nel tempo eterno e universale del mito.