Nel corso della rassegna di musica contemporanea Assoli, che l’Accademia Filarmonica Romana organizza ormai da sei anni, ogni sera un solista, di diversi strumenti, interpreta musiche degli ultimi decenni. Il 19 dicembre scorso c’è stato il pianoforte di Francesco Granata, che ha fatto ascoltare musiche di Fabio Vacchi. Venerdì 28 gennaio, Erik Bertsch, pianista italiano di origini olandesi, ha dedicato la serata a musiche statunitensi, salvo una italiana, di Fausto Sebastiani, che però lavora su una pagina di Gershwin, e un’altra, inglese, di George Benjamin. La rassegna continua fino al prossimo maggio. Fermiamoci un momento sulle musiche scelte da Erik Bertsch: Vertical Toughts 4 e Piano Piece di Morton Feldman, composti nel 1963, ripropongono una percezione dilatata del tempo, quasi sospeso sul silenzio e sul non tempo, ora attraverso accordi che sembrano cadere senza relazione tra loro, ora da piccole cellule che si accavallano senza stabilire successioni.

Dopo sessant’anni è una musica che ancora coglie indifesi, perché ci scaraventa contro un possibile e inaspettato nulla: una musica che non racconta, ma ci fa origliare sull’abisso dell’abolizione del tempo (la morte?).

Sono seguiti Two Thoughts about the Piano: Intermittences (interessante questa insistenza dei compositori americani sul pensiero: in fondo sono – e non solo quelli statunitensi –più intellettuali di quanto spesso non vogliano ammettere e di quanto gli europei concedano loro) e Caténaires di Elliott Carter, il più vicino alle poetiche europee: sono pagine composte tra il 2066 e il 2007, quando Carter aveva 98-99 anni! Sarebbe morto nel 2012. Figura importantissima nella musica del secondo Novecento, in realtà sembra prevedere anche un dopo, che ancora stiamo vivendo. L’unica sua opera teatrale, del 2.000, s’intitola What the next? Fu rappresentata, con strepitoso successo, a Berlino. C’ero anch’io a spellarmi le mani per applaudirla: una musica, e un teatro, che guardavano avanti come pochi. Indimenticabili il garbo, la cordialità dell’uomo, che si riconoscono nell’estrema raffinatezza e complessità dell’elaborazione musicale.

Di George Benjamin, inglese, nato nel 1960, Bertsch ha fatto ascoltare Piano Figures, del 2004, e Shadowlines (Six Canonic Preludes for Piano), del 2001. Con lui si torna in Europa. La scrittura canonica da una parte e la ricerca di una quadratura della forma denunciano l’appartenenza europea di Benjamin, distinguendolo dall’apparente disordine e arbitrio della scrittura americana. Che in realtà è costruzione di un altro ordine: mescolanza di sollecitazioni sonore diverse, che rifiuta di separare i livelli alto e basso, istituendo un ascolto che passa attraverso il microscopio dell’elaborazione. Una sorta di Finnegans Wake musicale. L’italiano Fausto Sebastiani, che è stato anche direttore di Nuova Consonanza, e che quest’anno compie sessant’anni, sembra coglierlo perfettamente in Overlapping del 1994, in cui un pensiero musicale nuovo si «sovrappone» al pensiero (antico?) di Gershwin, e da esso trae la sua materia.

La precisione, la penetrazione con cui Bertsch legge e restituisce queste musiche è ammirevole: sembra quasi di leggerle scritte via via dalle sue dita. Un bis allusivo e misterioso chiude la serata, l’adagio di un concerto vivaldiano trascritto per tastiera da Bach. Quasi un ritorno alle origini, o un ribadire le comuni radici della musica di oggi. Una sfida, una premonizione? Ogni schieramento è parziale, ogni dogma ideologia. Avanguardia e antiavanguardia si escludono invano a vicenda, perché entrambe raccontano la stessa cosa: ma da prospettive diverse. La musica del secolo scorso, e quella di oggi, come dimostra questa serie di concerti solistici, sembra volerci condurre a esplorare la molteplicità del reale attraverso i molteplici modi con cui è possibile leggerlo. Gli applausi convinti e calorosi da parte del folto pubblico confermano che questa è la lettura corretta delle poliedriche figure dell’oggi.