Non solo Africa e Brics. Il problema della sicurezza e della qualità alimentare – uno dei sottotemi dell’Expo Milano 2015 – complice la crisi finanziaria internazionale e il radicarsi delle diseguaglianze sociali, assilla ormai anche l’Occidente e non solo i Paesi sull’eterna via dello sviluppo, con uno slittamento progressivo dalle sole aree rurali a quelle urbane del Pianeta. Negli ultimi anni le grandi organizzazioni internazionali, le ong e le associazioni che si occupano di sviluppo sostenibile hanno adottato nuove strategie di lotta alla denutrizione – 925 milioni di esseri umani soffrono ancora la fame, quasi 3 miliardi il numero di individui che non accedono ai servizi primari – abbandonando la concezione centralistica degli aiuti di Stato in favore di progetti cofinanziati da privati che favoriscano la resilienza delle comunità. Microcrediti e assicurazioni sono i nuovi strumenti – controversi, a volte – per costruire nelle comunità le condizioni stabili per far fronte alla vulnerabilità alimentare. A fornire l’occasione di un punto sul tema è stato l’ambasciatore svizzero in Italia, Bernardino Regazzoni (la Svizzera è già pronta, con tanto di fondi già stanziati dal parlamento elvetico, a costruire il proprio padiglione Expo), che nelle sede romana di via Barnaba Oriani ha chiamato ad un’High level panel discussion alcuni rappresentanti della Fao, dell’Ifad, del World food programme, dell’Oxfam e della Swiss Re, il gruppo di assicurazioni e riassicurazioni zurighese leader nei progetti di trasferimento del rischio nelle zone a media povertà. E a dipanare il filo della discussione c’era Alessandro Politi, analista politico e strategico internazionale, docente ed esperto di geopolitica.

Politi, dati recenti dell’Istat certificano che in Italia ci sono 9,5 milioni di poveri relativi, il 15,8% della popolazione. Di questi, quasi la metà vive in condizioni di povertà assoluta.

Un sesto della popolazione, in Italia come nel mondo, è in condizioni davvero critiche. Negli ultimi anni il divario tra poveri e ricchi è diventato enorme, drammatico e brutale, con una forte marginalizzazione di colo che un tempo erano in grado di provvedere alle proprie necessità.

E allora come è cambiata la strategia di lotta alla povertà e alla denutrizione?

La fragilità alimentare, appunto, non è più una faccenda rurale ma sempre più anche una caratteristica della grandi conurbazioni, non solo in quello che un tempo chiamavamo Terzo mondo ma anche nei Paesi decisamente emersi.

E c’è ora la consapevolezza che la prevenzione costa meno dell’intervento di emergenza, e che siamo in uno scenario molto liquido di politica internazionale. Per cui è necessario costruire partnerariati tra diversi enti e culture per poter sviluppare programmi per ora pilota ma che si spera di estendere rapidamente. Finora gli interventi delle grandi organizzazioni internazionali dipendevano solo dagli stati nazionali, ormai spesso impoveriti o indebitati. Le Ong invece hanno un’attenzione al contesto locale efficace ma hanno bisogno di sinergie. A questo punto nuovi attori privati come le compagnie di assicurazione possono creare opportunità che non solo semplicemente di mercato ma di consolidamento di un tessuto economico e sociale foriero di ulteriore sviluppo.

E su questa base sono nati programmi come quello di resilienza rurale R4 dell’Oxfam e del Wfp. Di cosa si tratta?

Si basa su quattro azioni per la gestione del rischio: rischio da prevenire, da gestire, da accollare in modo ragionevole sugli stessi attori fragili, in questo caso i contadini, e rischio da trasferire grazie a un meccanismo assicurativo pensato per le esigenze di queste popolazioni. È un’idea innovativa ma che ha radici medioevali come i famosi monti dei paschi, monti della farina o le corvé feudali, nati per far fronte alle carestie.

Ma le assicurazioni, oggi, fanno parte di quel mondo della finanza che è alla base del problema.

Di solito le compagnie assicurano per un bene posseduto. Nel caso di un’assicurazione come Re Swiss si aiutano i clienti a costruire beni, risorse e strumenti da assicurare. Se una comunità sa di avere per esempio suoli poco produttivi e decide di costruire terrazzamenti o sistemi di irrigazione, investe sul proprio lavoro collettivo per far sì che la resa della terra sia migliore. È il classico sistema di generazione del capitale marxiano: un’insieme di forza lavoro che viene utilizzata per produrre un bene collettivo e che a quel punto viene assicurato. L’assicurazione è un moltiplicatore di forze dove dalla garanzia di quei beni collettivi, se qualcosa va male, viene un aiuto alimentare mirato. Anche in presenza di una rese sociale estremamente solidale i rischi che corrono i contadini sono altissimi, basta un ciclo di piogge normali ma mal distribuite a spazzare le riserve alimentari individuali e collettive. Finora l’unico paracadute erano gli aiuti d’emergenza, estremamente imprevedibili e poco quantificabili, però. E con l’impoverimento degli Stati, ora sempre più gli aiuti non coprono la richiesta.

Sono le comunità a pagare il guadagno delle assicurazioni.

Sì, ma guadagnano a lungo tempo, contando sul fatto che i contadini diventando più ricchi, accumulano un surplus e finalmente passano da un’economia di baratto a un’economica monetizzata. E le polizze assicurative vengono comprate a quel punto con soldi e non solo con forza lavoro. È chiaro che questo si basa anche sull’esperienza del microcredito che è diventato un business molto fiorente e qualche volta molto distorto rispetto alle finalità. Ma così si comincia ad aprire un terreno per un mercato finora inesistente, perché le normali assicurazioni nel mondo meno sviluppato sono compagnie urbane che non hanno le strutture, l’amministrazione, l’esperienza, e hanno prezzi troppo alti per poter servire zone rurali.

E il mercato si apre anche per le assicurazioni delle assicurazioni, come la Swiss Re.

Sì, ma la Swiss Re ha anche un progetto di assicurazione diretta dove si prende una parte del rischio delle comunità locali molto povere, e non necessariamente dipendente dalle attività del governo.

Ovviamente sono progetti pilota partiti nell’ultimo triennio – nel Corno d’Africa e in tutta l’Africa orientale, in Brasile o in paesi come Haiti, dove però il percorso non è ancora cominciato – che hanno un impatto relativo sulla popolazione ma che potrebbero essere un modello di sviluppo, tenendo ovviamente conto delle peculiarità del contesto.

La parola chiave è resilienza. Ma ovviamente le assicurazioni non possono aiutare quel miliardo quasi di persone che soffrono letteralmente la fame…

Certo, devono avere almeno l’energia necessaria per i lavori collettivi. È chiaro che nel dibattito emerge una corrente di pensiero critica che vede il governo dettare le regole per lasciare poi il campo ai privati. E invece le ong come Oxfam dicono che la resilienza è l’unica forma per contrastare il degrado del contesto ambientale, politico e di governo.

A proposito del contesto, secondo la Caritas e il rapporto dell’Oxfam, la crescita della povertà non è solo dovuto alla crisi economica ma all’aumento delle ingiustizie sociali.

È molto vero: il problema dell’equità è un problema essenziale. E del resto è evidente che la società italiana è tornata per certi aspetti al livello della società inglese ottocentesca raccontata da Dickens, dove si tollerano le miserie estreme e per chi non ce la fa si aprono le porte del manicomio o del carcere. Quando aumentano le ingiustizie c’è la precisa responsabilità di un’intera classe dirigente che va rinchiudendosi nella protezione sfrenata dei propri privilegi.

Quali strategie invece per le crescenti sacche di povertà nelle zone urbane, come in Grecia e in Italia, tanto per fare un esempio a noi vicino?

Occorrono meccanismi per permettere attività economiche sostenibili. In Danimarca la chiamano flexsecurity. Ma se non c’è una mano pubblica efficiente e con le idee chiare, libera da dogmi liberal economicisti, non se ne esce. Oggi le condizioni di accesso al lavoro sono aumentate ma sono sempre più sfruttatorie. Troppe fasce di impresa, grandi, piccole e medie, non sono altro che dei laogai open space. Tutto ciò è un freno alla reale competitività del Paese. Se a questo aggiungiamo il lavoro nero, sommerso e il lavoro di mafia, ci rendiamo conto di quali siano i veri vincoli allo sviluppo economico italiano. Altro che il costo del lavoro, questo è un mantra che non ha alcun significato.