Come in un complicato (e misterioso) gioco di carte, il ministero della cultura ha cominciato a calare gli assi e le scartine, ovvero a delineare la mappa prossima ventura dei teatri italiani. Una mappa molto approssimativa, come devono essere le conoscenze del ministro Franceschini che ha nominato in larga parte la commissione ministeriale che emette i giudizi, ed emanato il decreto di riforma (inizialmente disegnata dall’ex ministro Bray, poi «ritoccata» dal direttore generale Nastasi, e infine arrivata in bocca al ministro attuale, specialista nell’abbracciare le cause più sconsiderate, come la famosa pavimentazione del Colosseo…).

Già la prima tornata di giudizio, quella dei sette teatri riconosciuti come «nazionali», ha suscitato un vespaio di polemiche e ricorsi. Ha protestato Genova, la cui debolezza strutturale non era tanto dissimulabile, e che come Catania ha deciso di fare ricorso. Perché per quanto deboli, i due teatri non erano da meno di quello di Napoli, che vede nel programma triennale la presenza di un unico demiurgo, ovvero il direttore inossidabile De Fusco (al centro delle denunce attuali da parte dei concorrenti che hanno visto assegnati i posti messi a concorso a parenti e amici dei politici locali). E forse non erano da meno neanche a quello di Venezia, cui non basta certo «associarsi» pomposamente con la sala di Padova cui era già collegato e con un gruppo privato di Verona per vedersi catapultata nell’empireo dei teatri nazionali (e le accuse si allargano a Roma che una scuola non ce l’ha da quasi vent’anni, e alla renziana Firenze che per l’occasione ha deciso un matrimonio non si sa se incestuoso o morganatico con il Centro di Pontedera, non proprio un ex voto di Grotowski a Lavia…).

Il problema vero è che tra promesse e giuramenti di cui sarà difficile controllare l’attuazione, i «nazionali» assorbiranno uno sfracello di finanziamenti che non crescono per l’occasione, anzi andranno a scapito degli altri. Così che quella che doveva essere una misura in grado di riordinare e razionalizzare il sistema teatrale e i suoi valori, finirà per risultare l’effetto di un gioco di inciuci. Non sarà il Nazareno, e forse neanche quello del Collegio Romano o della Santa Croce come suonano gli indirizzi specifici, ma certo qualcuno deve aver stabilito le regole e le poste di questo stralunato Patto.

E il bello deve ancora venire: la settimana prossima toccherà ai Tric, ovvero ai teatri di rilevante interesse culturale. Difficile immaginare come avverrà il riconoscimento, a parte i tre già nominati per declassamento di più alte aspirazioni (appunto Genova, Catania e Palermo). Qui i pretendenti sono molti di più, in qualche caso una pletora dentro la stessa regione. In prima linea i «non più stabili» che certo non hanno preso fiato prima della corsa, a giudicare dalle nomine direttive di questi ultimi mesi. Anche se in questo campo, è la lirica il settore più sorprendente: come in un film di Romero, tornano fantasmi già molto discussi a loro tempo. Magari cambiando colore di casacca, tanto si sa, la sinistra non sa valutare, ed è nelle nomine di bocca buona, anzi buonissima. Basta andarsi a vedere i nomi dei nuovi sovrintendenti.