Sono evidenti, in questi giorni, i movimenti per logorare il governo Conte e arrivare a un governo di grande coalizione. Movimenti innanzitutto mediatici, a partire dai quotidiani Repubblica e Corriere e dal canale televisivo di Urbano Cairo, La 7. Come noto Cairo è proprietario anche del Corriere, oltre che recente autore di un video in cui, vestendo i panni del vitaminico imbonitore anni Ottanta, spronava con aria da yuppie i propri dipendenti a vivere la crisi come un’opportunità.

Se i movimenti mediatici sono visibili, quelli politici sono meno decifrabili. Renzi e Salvini sono favorevoli a un governo di ‘salvezza nazionale’ guidato da Draghi. In base ai suoi comportamenti storici, si può pensare che il Pd, di fronte a una crescita delle pressioni, non resisterebbe a questo richiamo. Come successo in passato, l’opzione di un governo tecnico potrebbe essere favorita da manovre speculative sull’economia italiana e dall’Ue. Assisteremmo allora a una rappresentazione già vista: la crescita dello spread, l’allarme sui conti pubblici, annunci di crolli imminenti dell’economia nazionale.

Giuseppe Conte non è sordo alle richieste di Confindustria e delle imprese. Ma non si limita ad eseguirle letteralmente. Questo fatto, insieme alla sua posizione su Mes ed eurobond, è sufficiente perché le élite economiche italiane e le élite europee lavorino alla fine del suo governo.
Ciò avviene mentre il suo consenso personale cresce. Ma si tratta di un consenso basato su un paradosso. Da un lato Conte appare l’unica ‘parte politica’ in campo: lo si attacca (guarda caso dagli schermi di Cairo) proprio per essere troppo di parte.

Dall’altro lato, il suo consenso appare simile a quello di cui godono le cariche istituzionali ‘terze’, come il presidente della Repubblica. Figure affidabili, punti di riferimento che appaiono esterni alla mischia del conflitto politico. È un consenso analogo a quella che ebbero a suo tempo Monti, Enrico Letta e Gentiloni, a cui Conte sa aggiungere maggiore carisma e capacità di parlare ai cittadini.

Il premier quindi appare al contempo di parte e ‘super-partes’. Qual è, infatti, la sua identità politica? Qual è la sua posizione sulle grandi discriminanti sociali? È di destra, di sinistra, di centro? È più vicino al Pd o al M5S? A nessuna di queste domande si può dare una risposta certa. Difficilmente Conte può avere un futuro politico che vada oltre questo governo, perché non ha un’identità politica e le identità contano, anche quando sembra di vivere nel regno della post-politica.

E un’identità non ce l’ha nemmeno la sua maggioranza. Fragilissima prima della crisi, non ha impresso nessuna chiara direttrice al suo modo di affrontarla e di immaginare il ‘dopo’. Ha chiuso le produzioni non essenziali, ma consente che molte di queste restino aperte. Cerca di mostrarsi consapevole che la crisi non colpisce ugualmente tutti i settori sociali, ma riserva alle fasce popolari provvedimenti insufficienti e solo parzialmente effettivi.

Alza la voce con l’Europa, ma presenta come un trionfo un accordo che al momento non le concede quasi nulla, mentre autorevoli dirigenti del Pd iniziano a dichiararsi favorevoli al ricorso al Mes. Situazioni tragiche come quella lombarda dipendono innanzitutto dalla politica sanitaria e dalla dimensione economica (troppe attività aperte), ma il governo incentra il proprio discorso sull’appello alla responsabilità dei cittadini. Nel governo c’è poi una sinistra, ma la sua voce non si sente.

Questa doppia fragilità – il consenso paradossale del premier e l’assenza di un segno politico della maggioranza – offre un terreno favorevole ai movimenti per un governo tecnico. Potremmo vederne gli effetti in tempi brevi. La crisi provocata dalla pandemia sarà lunga e sistemica. È chiaro che le èlite economiche e politiche non vorranno organizzare una risposta adeguata. Anche in Italia, questa contraddizione tra necessità e realtà potrebbe rendere possibile la ricostruzione di un punto di vista autonomo della sinistra. Nelle crisi sistemiche emerge chi riesce a mostrarsi all’altezza della dimensione storica dei problemi.

Non si tratta più quindi di limitarsi – come la sinistra italiana ha fatto in questi anni – a esprimere identità o pregare gli elettori di essere votati per esistere. Storicamente, in crisi di queste dimensioni un discorso di sinistra si afferma se intreccia il tradizionale registro della giustizia sociale con altri registri: quello dell’efficacia (“siamo più efficaci degli altri a gestire la situazione”); quello del cambiamento concretamente realizzabile (cambiamenti che sembravano utopistici diventano necessari); la definizione di un orizzonte sociale complessivo; l’individuazione, su ognuno di questi aspetti, di riconoscibili avversari economici, politici e sociali.

Per la sinistra è il momento di riorganizzare il proprio discorso politico.