Il poliziotto agita le braccia: «In terra, sbracati, nun se po’ sta». È notte, ma posti per dormire nelle strutture per migranti non ce ne sono più. Finiscono sempre prima i letti di quelli che hanno sonno, qui a Roma. Anche i centri che accolgono i minori sono al completo e una trentina di ragazze e ragazzi cercano riparo alla stazione Tiburtina, in piedi, vicini.

Wudie ha 16 anni, una croce tatuata sulla fronte, uno zaino che da un anno si trascina dall’Eritrea all’Italia passando per la Libia e per il mare e che la seguirà a Francoforte insieme a Seliam, che è più sfortunata perché ha la bronchite ma più fortunata perché ha un cellulare e pure lei prega in silenzio prima di mandare giù il cibo offerto dai volontari. Nemmeno in piedi, vicine, possono stare: «Nun ve dovete assembrà», spiega il poliziotto sceso dal blindato fermo davanti al piazzale della Stazione, ripetendo ordini che imbarazzano anche lui: «Ma quando finisce ‘sta storia? Quando je trovano un posto a ‘sti cristi?» domanda rivolto ai volontari che avrebbero voluto domandarlo a lui: «Io?! E io che ne so io!» e intanto, con le mani fa cenno a qualcuno di andare a destra e qualcun altro di andare a sinistra, nella notte, Wudie di qua e Seliam di là: «Ve dovete spar-pa-glià!». Perché a Roma l’emergenza dei migranti in transito non è umanitaria, è geometrica: scappano dalla guerra e dalla fame in ordine sparso, si pigiano su una barca tutti insieme e all’arrivo in Italia li si sparpaglia una prima volta. Ma quelli si cercano, quando hanno fortuna si trovano, si stringono gli uni agli altri ricomponendo il gruppo, perché scappare in gruppo è meglio che scappare da soli. Si passano la voce e si trovano là dove vengono accolti dai volontari che li aiutano a sfamarsi, riposarsi, lavarsi, coprirsi, curarsi, orientarsi, rimettersi in viaggio. Lo sa, e lo capisce il poliziotto spedito per la terza volta in pochi giorni a fare a pezzi – pezzi piccoli – il gruppo, un pezzo di qua e un pezzo di là, così il gruppo è fregato ma il decoro urbano è salvo. La stessa scena si era ripetuta davanti al sagrato della chiesa di San Lorenzo, addossata alle mura del Verano, dove il parroco era stato convinto dai volontari allontanati da Via Cupa ad aprire i cancelli così che loro potessero servire i pasti e da qualcun altro, due giorni dopo, a richiuderli. Ma era già una replica: stesso poliziotto, stessi volontari. Una replica del copione andato in scena davanti ai cancelli sigillati del Baobab, ancora chiuso. Gli stessi blindati e poliziotti spediti a smembrare gli assembrati, che ogni volta si riassembrano in un posto più scomodo.

Ieri notte, allontanati dalla stazione, i migranti sono finiti sotto al cavalcavia, tra gli scoli e gli scarichi, davanti alle tre camionette che hanno stazionato a Tiburtina per tutta la notte. Per non assembrarsi, si sono accasciati a qualche metro di distanza uno dall’altro, nei quaranta sacchi a pelo procurati dai volontari del Baobab, e lì, tutti insieme, distanti, sono crollati. Stamattina erano di nuovo vicini, in fila per il caffé, e quando il poliziotto è avanzato verso l’ennesimo assembramento non gli riusciva di alzare lo sguardo a incrociare quello del volontario che distribuiva i biscotti: «Ao’, ma quando la finimo co ‘sto ping-pong?!».

Nell’attesa, i volontari del Baobab si passano la voce su Facebook per decidere dove distribuire il prossimo pasto. Dentro, al Baobab, fuori dal Baobab, dentro alla stazione, fuori dalla stazione, sotto al cavalcavia, davanti al cavalcavia, alla destra del parcheggio dei bus, alla sinistra del parcheggio dei bus, trascinando i sacchi di coperte e le cofane di insalata di riso, rimbalzando tra la stazione e il Verano come sfere di mercurio schizzate fuori da un termometro, decine di piccole sfere che tornano una. Martedì c’era stato un consiglio comunale straordinario per affrontare l’ordinaria accoglienza concluso con un impegno, sempre quello: l’impegno di impegnarsi. Nel frattempo, «Abbiate pazienza, nun ve dovete assembrà».