Non avendo potuto scongiurare la vittoria alle presidenziali di Pedro Castillo, la destra fujimorista e anti-comunista fa di tutto per impedirgli di governare. In attesa del passo decisivo: ottenere la sua destituzione per «incapacità morale», ambigua figura prevista dalla Costituzione che non richiede altro argomento che la maggioranza dei due terzi.

NELL’AZIONE di logoramento, iniziata – letteralmente – all’indomani del suo insediamento, la destra ha messo a segno un primo punto, costringendo alle dimissioni dopo appena 18 giorni dalla sua nomina il ministro degli Esteri Héctor Béjar, 86 anni, idolo della sinistra peruviana: ex guerrigliero dell’Esercito di liberazione nazionale, docente universitario e analista politico, sostenitore del processo di integrazione latinoamericana nel quadro di una politica estera indipendente e sovrana, basata sul rispetto dell’autodeterminazione dei popoli.

Béjar era finito nel mirino del Congresso quando aveva annunciato l’uscita del Perù dal Gruppo di Lima, ente creato nel 2017 dai governi di destra della regione ed eterodiretto dagli Usa, al fine di rispondere alla cosiddetta «rottura dell’ordine democratico in Venezuela».

Una decisione che aveva subito indotto il partito di Keiko Fujimori, Fuerza Popular, a presentare una mozione perché il ministro riferisse in Parlamento sugli orientamenti della politica estera del governo: «Non esiste ragione valida perché il Perù debba ritirarsi dal Gruppo di Lima e così negare i principi e i valori democratici che i ministri hanno giurato di rispettare», recitava la mozione auspicando un pronunciamento del Congresso «contro il socialismo del XXI secolo e a favore dello stato di diritto».

A fornire il pretesto per liberarsi di Béjar sono state alcune dichiarazioni da lui espresse anni fa che la stampa è andata a ripescare, manipolandole e isolandole dal contesto. Esprimeva la convinzione che Sendero Luminoso fosse «in gran parte opera della Cia e dei servizi di intelligence», che la Cia avesse a che fare anche con la divisione della sinistra peruviana e che a scatenare il terrorismo nel paese fosse stata la Marina.

LE DIMISSIONI DI BÉJAR, sollecitate dal primo ministro Guido Bellido di fronte alle polemiche scatenate dalle sue parole, sono tuttavia solo l’inizio di una strategia di destabilizzazione che, dal 2017, ha già provocato la caduta di tre presidenti e che ora ha preso di mira altri cinque ministri.

E SE NON È UN SEGNALE incoraggiante il fatto che il Congresso abbia approvato la costituzione di una commissione che indaghi sui primi passi del governo e un’altra che verifichi – ancora – la regolarità del processo elettorale, è anche possibile che i parlamentari decidano alla fine di negare la fiducia al governo presieduto da Bellido. Tanto più che contro quest’ultimo è stata aperta un’indagine per presunta apologia del terrorismo, una controversa figura legale esposta a ogni genere di manipolazione.

Ma la sfiducia a Bellido, con il rischio che il suo sostituto sia ancor più inviso alla destra, sarebbe un passo azzardato: in base alla legislazione peruviana, se il Congresso nega la fiducia a due distinti governi, il presidente è autorizzato a dissolverlo e a convocare nuove elezioni legislative. In questo quadro, sono in molti, a cominciare dallo stesso Béjar, ad auspicare una reazione decisa da parte del presidente Castillo, perché esca dall’angolo in cui lo hanno spinto le destre.

«L’UNICA COSA che può salvarlo è il popolo – ha spiegato l’ormai ex ministro degli Esteri – È necessaria una mobilitazione popolare. Nel caso in cui il governo rinunci a convocarla, non potrà far altro che negoziare con il Congresso, la cui maggioranza è dominata da un’estrema destra quanto mai decisa a liquidare il presidente».