Julian Assange potrà fare richiesta per presentare appello contro l’estradizione negli Stati uniti davanti alla Corte suprema britannica – un successo parziale ma pur sempre un successo, come ha osservato la compagna del fondatore di Wikileaks Stella Morris commentando la sentenza emessa dall’Alta corte lunedì: «Adesso la Corte suprema dovrà decidere se ascoltare l’appello ma, sia chiaro, oggi in corte abbiamo vinto».

A garantire ad Assange la possibilità di presentare un appello alla Corte suprema è la stessa Alta corte di Londra che lo scorso dicembre, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva accolto la richiesta di estradizione negli Usa, dove l’attivista rischia fino a 175 anni di carcere per aver pubblicato migliaia di documenti classificati fra il 2010 e il 2011 – «Se ci fosse giustizia, i crimini che Julian ha esposto, crimini di guerra e l’omicidio di civili innocenti, non sarebbero messi in discussione», ha aggiunto ieri Morris.

IN QUELL’OCCASIONE i giudici si erano ritenuti «soddisfatti» delle assicurazioni statunitensi sul fatto che Assange non sarebbe stato detenuto in un carcere di massima sicurezza, né sottoposto all’isolamento prolungato, e avevano così stabilito che non sussistevano più i pericoli per la salute dell’attivista (secondo gli psicologi sentiti dal tribunale a rischio suicidio e autolesionismo) che avevano portato, in primo grado, a deliberare contro l’estradizione.

Ma proprio l’affidabilità delle garanzie offerte dagli Stati uniti – alquanto “pelose” come fa notare Amnesty International: ci si riserva infatti di sbattere Assange in un carcere di massima sicurezza o in isolamento qualora ex post lui «ne dia motivo» – è la «questione di diritto» sollevata dalla difesa del giornalista per poter ricorrere davanti alla Corte suprema che ieri l’Alta corte ha accolto, negando però un appello “diretto” e lasciando ai giudici la scelta se sentire o meno il caso. Le «questioni di diritto» (points of law: argomenti di rilevanza pubblica generale e non limitati al caso in questione) sollevate dalla difesa di Assange erano però tre, e riguardavano anche la valutazione del rischio di tortura e maltrattamenti in un paese come gli Usa dove sono in vigore pratiche carcerarie bandite in Europa. Per questo Massimo Moratti di Amnesty International Europa ritiene la sentenza una vittoria solo parziale: «Anche se ci rallegriamo della decisione dell’Alta corte di certificare uno dei problemi relativi alle garanzie statunitensi – scrive in un comunicato – ci preoccupa che i giudici abbiano scansato la loro responsabilità di far sì che questioni di pubblica importanza siano esaminate nella loro interezza dalla magistratura». «La tortura e altri maltrattamenti, fra cui l’isolamento prolungato, sono tratti fondamentali della vita di molte persone nelle prigioni federali Usa, fra cui detenuti sulla base di accuse simili a quelle di Assange».

SULLA STESSA lunghezza d’onda la reazione di Cpj (Committee to Protect Journalists), che «accoglie con cautela» la decisione di ieri, ed esorta il Dipartimento di giustizia Usa a interrompere i procedimenti per l’estradizione e a far cadere le accuse contro Assange: «L’azione penale contro il fondatore di Wikileaks negli Stati uniti stabilirebbe un precedente legale profondamente dannoso che consentirebbe la persecuzione dei giornalisti, e deve essere fermata».
Ora i legali del fondatore di Wikileaks – in carcere da tre anni nella prigione londinese di Belmarsh in attesa di conoscere il suo destino, dopo aver trascorso sette anni rinchiuso nell’ambasciata ecuadoregna – hanno due settimane di tempo per presentare la loro istanza alla Corte suprema.

«Non dimentichiamo che ogni volta in cui vinciamo, finché questo caso non verrà archiviato, finché lui non verrà liberato, Julian continuerà a soffrire», ha dichiarato ieri Morris. «Ma siamo ancora lontani dall’avere giustizia in questo caso, perché Julian è stato prigioniero per tantissimo tempo, mentre non avrebbe dovuto passare un solo giorno in prigione».