Assange accusa Hollywood
Intervista Il fondatore di Wikileaks ai media: «La libertà di stampa è al capolinea. Negli Usa 6 milioni di persone fanno parte di uno stato nello stato che nasconde la verità e intercetta chiunque»
Intervista Il fondatore di Wikileaks ai media: «La libertà di stampa è al capolinea. Negli Usa 6 milioni di persone fanno parte di uno stato nello stato che nasconde la verità e intercetta chiunque»
«Can you hear me California, mi sentite?». Sono le prime parole di Julian Assange ai giornalisti che ha incontrato sabato sera, non nell’ambasciata ecuadoregna di Londra ma nella sede dei corrispondenti esteri di Hollywood, dove una quarantina di cronisti lo hanno intervistato via Skype. Il fondatore di Wikileaks è apparso sullo schermo da una dissolvenza da bianco, come un ectoplasma in un thriller hollywoodiano, per parlare a tutto campo di una prigionia nell’ambasciata di Londra che prosegue ormai da oltre 500 giorni, di Wikileaks, dell’apparato di sorveglianza globale e… di cinema. Con questo incontro, Assange amplia ancora di più il fronte della sua offensiva mediatica contro Hollywood (vedi box sotto).
Assange, perché critica il film «il quinto stato»?
Intanto il film è tratto da due dei più celebri libri su Wikileaks. La Dreamworks ha deciso di acquisire quei diritti e usare gli autori come consulenti. Ma non ci hanno mai contattati, non hanno voluto il nostro contributo né hanno contribuito ai fondi per la nostra difesa legale. È semplicemente un’operazione opportunista e ostile. Ma il film non è stato fatto per il pubblico. La gente ci vuole bene, sostiene istintivamente i «partigiani». Quindi produrre un film che dà voce alle bugie e alla diffamazione del governo Usa è sostanzialmente un autogol.
Perché ha deciso di parlare ai giornalisti di Hollywood?
Da quello che ho capito, l’associazione dei corrispondenti esteri di Los Angeles è stata fondata nel 1943 per contrastare lo strapotere degli studios che favorivano esclusivamente i grandi media americani. Se è così, è stata una sorta di «hack» ante-litteram. Oltretutto è un’operazione che sottolinea una problematica fondamentale nei media e che mi sta a cuore: il rapporto fra coloro che gestiscono le informazioni e coloro che cercano di ottenerle. È utile riflettere sulla responsabilità della stampa, quella di essere effettivamente quel «quarto potere» di cui parlava Thomas Jefferson. Anche i media dello spettacolo hanno una responsabilità. I film di Hollywood sono un prodotto culturale che ha un enorme effetto su come la gente vede e percepisce il mondo. E questo può avere un grande impatto nel momento in cui Obama ha intrapreso una vera crociata contro giornalisti e fonti «non ufficiali». Una campagna di fronte alla quale impallidiscono quelle di tutte le precedenti amministrazioni. In Usa come in Inghilterra stiamo assistendo al degrado totale della libera stampa. Credo che la stampa Usa, compresa quella del cinema, abbia una buona parte di colpa per la situazione che si sta delineando nel mondo. Abbiamo però l’opportunità – se ci proviamo abbastanza – di cambiare le cose e invertire la rotta.
Da quanto tempo manca dagli Usa?
L’ultima volta che sono stato in California era il 2011. Avevamo appena reso pubblico il nostro documentario «Collateral Murder» grazie al materiale procurato da Bradley Manning. Allora non potevo sapere che probabilmente non sarei mai più tornato negli Stati uniti, né che non lo avrebbero potuto fare molti miei amici e collaboratori. Oggi gli Usa sono diventati un luogo da fuggire piuttosto che un paese a cui chiedere asilo. Un luogo che sono stati già costretti a lasciare giornalisti come Glenn Greenwald andato in Brasile, Laura Poitras rifugiata in Germania, Jacob Applebaum, fondatore del progetto Tor, anche lui in autoesilio in Germania. Alcuni cittadini britannici come Sarah Harrison, che ha accompagnato Edward Snowden nel volo da Hong Kong a Mosca, non possono più tornare in patria e non ultimo lo stesso Snowden, che abbiamo cercato di aiutare a trovare rifugio in America Latina e successivamente in Russia.
E poi lei, prigioniero in ambasciata…
È difficile, certo, svegliarsi e vedere le stesse mura per 500 giorni. Allo stesso tempo sto lavorando molto e non devo più preoccuparmi di nascondermi. Continuiamo ad avere collaboratori leali e molto bravi in tutto il mondo. Intellettualmente quindi non mi sento intrappolato, infatti oggi sono qui con voi. Ma, in un certo senso, mentre io sono imprigionato qui c’è una prigione molto più grande in cui vivete anche tutti voi. Bisogna battersi per evitare che sia questa la realtà.
Si riferisce allo scandalo Nsa e allo stato di sorveglianza globale?
La «sicurezza» non può essere dominata da poteri che hanno a cuore i propri interessi invece che quelli dei cittadini. Gli Usa oggi rischiano di passare sotto il controllo di un apparato di sicurezza che in realtà è un sistema transnazionale, occidentale e non solo, di cui fanno parte agenzie di intelligence come Cia e Mi6, disposte a condividere i loro dati con paesi come la Cina e perfino con corporation private. Sono strutture che fanno i propri interessi, non quelli della gente. Quella fra sicurezza e libertà è una falsa scelta, una scusa inventata dal complesso industriale che c’è dietro l’apparato di sicurezza. Solo l’anno scorso sono stati secretati 7,7 milioni di documenti. La Nsa intercetta 2 miliardi di messaggi al giorno e vorrebbero presto arrivare a 20 miliardi al giorno. Fin quando Wikileaks non sarà in grado di rendere pubblico lo stesso volume di informazioni non si può parlare di equilibrio.
E qual è la soluzione?
Personalmente sarei molto più tranquillo se gli apparati di di sorveglianza di Usa e Inghilterra, per esempio, fossero proporzionati a quelli di altri paesi per bilancio e numero di persone impiegate. Negli Stati uniti ci sono oggi 5,5 milioni di persone impegnate in questo stato-ombra, uno stato nello stato. Ognuno ha parenti e amici, parliamo quindi di 15 milioni di persone in qualche modo coinvolte in questo apparato da stato-caserma. Non posso indicare una soluzione ma so dove bisogna cominciare: il primo passo è rivelare le dimensioni del problema. Per questo è necessaria la trasparenza – solo così può aprirsi un dibattito democratico e possono cominciare ad avanzarsi proposte alternative. Altrimenti, credo che ci saranno inevitabilmente molti altri disposti a seguire i passi di Greenwald, Potrias, Appelbaum, etc.: persone disposte a lasciare il proprio paese per rivelarne i segreti.
Come pensa che vi giudicherà la storia?
Non ci penso veramente, anche se poi la storia è scritta in molti modi. In genere è la menzogna sul passato su cui si trova un consenso. Abbiamo l’opportunità oggi di cambiare la storia e per una volta dirottarla dalla versione ufficiale. La gente parla di Wikileaks come di un’organizzazione militante e in un certo senso è così. Ma stiamo anche sviluppando una sorta di nuova biblioteca di Alessandria per il nostro presente. Abbiamo documenti dagli anni ’70 in poi. Può essere l’impalcatura per un mondo migliore. Ogni decisione che prendiamo è basata su quello che sappiamo, e la libera informazione ha la possibilità, quindi, di generare decisioni migliori. Se guardiamo la storia della civiltà è chiaro che il progresso è avvenuto di pari passo con la circolazione delle informazioni. Dal medioevo a Gutenberg fino alla modernità, man mano che abbiamo acquisito verità siamo in stati grado di fare cose migliori. La ragione per cui considero questo un momento particolarmente cruciale è che mi sembra che la civiltà sia a un crocevia. Da un lato c’è una distopia di sorveglianza di massa condotta da stati fuorilegge, dall’altro c’è una nuova concezione di cosa pubblica, la possibilità di un consenso transnazionale costruito sulla libera circolazione delle informazioni e la comunicazione stimolata dalla trasparenza.
Voi continuate ad essere operativi?
Abbiamo appena distribuito 6 video di Snowden, i primi che sono apparsi della sua permanenza in Russia, in cui riceve il premio Sam Adams. presentato a «whistleblower» (talpe, ndr) che hanno denunciato misfatti di Cia, Fbi e Nsa. Siamo in contatto costante con lui, la nostra giornalista Sarah Harrison lo ha aiutato nel suo trasferimento da Hong Kong a un luogo dove avrebbe potuto essere protetto. Il nostro impegno è contro stati che fanno le regole ma poi si arrogano il diritto di infrangerle se questo è nel loro interesse. È incredibile che Jay Carney, il portavoce della Casa bianca, arrivi a condannare la Russia per aver permesso un incontro fra Snowden e Amnesty international! È roba che ti aspetteresti dalla Corea del Nord. E dimostra come gli Stati uniti siano controllati da un Deep State, uno «stato profondo» – lo stato segreto dell’apparato di sicurezza.
Come risponde a chi vi accusa di aver messo a repentaglio vite innocenti con le vostre rivelazioni?
È la semplice ripetizione di comunicati stampa del Pentagono. Nemmeno il governo Usa ha mai potuto provare l’esistenza di una sola vittima a causa del nostro operato. È solo la distorsione di un’affermazione ipotetica fatta dal capo di stato maggiore Mullen nel 2010 e ripetuta senza il condizionale dai media di Murdoch. E oggi su internet è dieci volte più facile trovare questa citazione che non un’analisi delle vere cause di milioni di morti nel mondo: le guerre imperialiste. Ogni volta che viene pubblicata una storia seria che imbarazza l’apparato di sicurezza loro ci ritorcono contro le menzogne.
È ancora possibile oggi l’anonimato su Internet?
Molto difficilmente. È possibile un offuscamento parziale delle identità usando ad esempio gli algoritmi di Tor che neanche la Nsa è attualmente in grado di penetrare. Io comunque credo che le rivelazioni di Snowden e Greenwald, come il precedente lavoro dei nostri «cypherpunk», stia producendo una «domanda di mercato» per tecnologie anti-sorveglianza. Le rivelazioni sui software americani in cui vengono preventivamente inserite «backdoor», sistemi di accesso per le agenzie di sorveglianza, sono destinate a provocare il collasso dell’export informatico americano. E credo che vedremo presto una simile dinamica di allontanamento da social network e nuvole-dati americane, una perdita potenziale stimata in 20 miliardi di dollari.
Ci sarà un buon film sulla storia di Wikileaks?
Dopo la drammatica vicenda di Snowden c’è già chi opportunisticamente ha messo in cantiere sceneggiature per nuovi film. Sono agiografie prodotte senza alcuna vera conoscenza di ciò che è realmente accaduto. Io consiglierei a tutti di attendere che sia pronto il film a cui sta lavorando Laura Poitras e che spero possa essere presentato al prossimo Sundance festival.
* intervista pubblicata in parte anche sul manifesto edizione iPad di domenica 12 ottobre
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