Sotto un cielo livido di pioggia si stagliano le rovine di quello che era stato un agriturismo, Assandira, consumato da un incendio e distrutto come le vite di decine di animali i cui cadaveri vengono portati via dai vigili del fuoco. Ma c’è anche il corpo senza vita di un uomo, Mario, il figlio del pastore Costantino Saru (Gavino Ledda), che si aggira senza sosta fra le macerie, trafitto dalla morte del figlio: quel fuoco distruttore in Sardegna così abituale si lascia alle spalle un dolore inaccettabile, qualcosa che non si può pronunciare. La macchina da presa di Salvatore Mereu – regista di Assandira, tratto dall’omonimo libro di Giulio Angioni e presentato fuori concorso a Venezia – lo segue senza sosta, lasciando quasi fuori dall’inquadratura tutto il brulicare di persone che gli si muove attorno, dai vigili al pubblico ministero venuto ad accertare le dinamiche dei fatti: è dentro Costantino che si è consumata la tragedia, a cui il mondo esterno non è più consentito accedere.

SPLENDEVA il sole invece nell’estate in cui Mario (Marco Zucca, bravissimo, che Mereu ha scovato a una sagra di paese) e la compagna tedesca Grete (Anna König) sono tornati dalla Germania per la rituale vacanza sull’isola, a casa di Costantino in un paese volutamente non specificato. La coppia vuole convincere Costantino a prendere parte al loro progetto: fare del vecchio ovile dove il pastore ha lavorato tutta la vita un agriturismo, che offra ai turisti un’esperienza in prima persona della «tradizione» sarda. O meglio delle icone deformate che la tradizione – svuotata di senso – assume nell’immaginario di un turismo globalizzato, che della Sardegna riporta a casa una cartolina fatta di immagini stereotipate: le pecore, i pastori, i banditi – «che bandito abbiamo qui?» chiede l’ingegnere venuto a fare i sopralluoghi nella futura Assandira – i maialini arrosto, la vendetta, il padre padrone raccontato dallo stesso Ledda che a Costantino «regala» la propria esperienza di vita. E in primo luogo il dolore di una tradizione che nessuno capisce, nemmeno lui che si è limitato a viverla e ne osserva sorpreso, e offeso nella sua dignità, la trasposizione in volgare imitazione plastificata. Ma non sa dire di no a Mario e soprattutto a Grete – che inizialmente ignora, come spaventato dal pericolo che lei rappresenta – che con il suo entusiasmo e il suo corpo prorompente ed «esotico» lo risveglia dal torpore di chi ha accettato di essersi lasciato la vita alle spalle.

MEREU tratteggia infatti quasi un triangolo amoroso fra i tre, fa scivolare anche dentro il loro rapporto il conflitto del racconto, la scelta conscia e inconscia di «immolare» Costantino a un mondo che verrà – la modernità, il futuro, la prossima generazione – costruito però su fondamenta già marcite. Così l’«offesa» viene raddoppiata in una dimensione intima e a tratti non necessaria: a dare forma alla vergogna e al senso di colpa del protagonista era già sufficiente la successione di sequenze che mostrano il progressivo prosperare di Assandira, splendide nella crudeltà con cui inquadrano lo svilimento di un mondo, del senso di una vita, svelano la messa in scena di una farsa.

È NELLO SCAMBIO di sguardi il movimento e il senso del film, incessante come la macchina del regista che li segue: quello di un padre verso il figlio e una donna che rappresenta un mistero impossibile da svelare, quello degli «stranieri» su un mondo che guardano e non possono vedere, il salto fra presente e flashback del passato, lo sguardo del pm che cerca di venire a capo di una vicenda di cui non potrà mai abbracciare il «totale». Ed è nel dialogo impossibile fra un padre e un figlio che improvvisamente veste i panni di ciò che gli era stato risparmiato – la dura vita del pastore – in cui si specchia la Sardegna stessa, rimasta in quel passaggio irrisolto fra ieri e domani. Dentro un oggi di contraddizioni, ferite e offese.