Nella «foto di famiglia» dei capi di Stato e di governo africani al termine del vertice Onu, ieri ad Addis Abeba, mancava il presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keïta.

Proprio mentre il il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres sottonineava al summit che «non ci sarà pace e sviluppo ne mondo se l’Africa non sarà in grado di gestire non solo i suoi conflitti, ma soprattutto, di fare prevenzione e trovarne una soluzione», la situazione interna del Mali è nuovamente tornata rovente, con una scia di sangue sempre più lunga nelle ultime settimane.

Ieri mattina almeno 18 militari delle Forze armate maliane sono stati uccisi nella base di Soumpi, nei pressi di Timbuktù, in un attacco attibuito a non meglio precisati «terroristi jihadisti». L’attacco non è stato rivendicato e secondo fonti dell’agenzia Apa da Bamako anche due assalitori sarebbero rimasti uccisi nel conflitto a fuoco ma questo non avrebbe impedito agli altri del commando di darsi alla fuga a bordo di mezzi militari.

Il presidente maliano Keïta non è stato però fermato da questa sparatoria: non si è recato in Etiopia per recarsi in elicottero a Boni, distante circa 300 chilometri da Timbuktù, dove giovedì scorso c’è stata una vera carneficina. Un pullman che da Djibo in Burkina Faso si recava oltre il confine verso la città di Boni, in Mali, è saltato su una mina. Nessuno dei passeggeri si è salvato, in tutto 26 civili sono morti, tra cui sei donne e quattro bambini. Un’intera famiglia di sette persone è stata sterminata.

La terra di confine tra Burkina Faso, Mali e Niger ( proprio dove adesso l’Italia manderà i suoi contingenti militari al seguito dell’iniziativa del G5 Sahel su iniziativa di Macron ndr) sta diventando sempre più pericolosa. In sole 24 ore, la settimana scorsa, oltre alla strage di Boni, un’altra ventina di persone hanno perso la vita per «attacci terroristici».

L’accordo di pace firmato nel 2015 con alcune fazioni dei ribelli, in gran parte tuareg, che nel 2012, con le armi prese nella guerra in Libia, avevano conquistato il Nord del Mali – per venire poi cacciati dalla coalizione antijihadista a guida francese nel 2013 – fa acqua da tutte le parti.

Tant’è che il Consiglio di sicurezza dell’Onu la scorsa settimana ha convocato i firmatari dell’accordo di pace del 2015, per rilanciarne l’applicazione, minacciando altrimenti l’applicazione di sanzioni. L’Onu ha segnalato «un pressante bisogno di fornire alla popolazione del nord e delle altre regioni del Mali dividendi tangibili e visibili della pace» prima delle elezioni previste per quest’anno.