Le forze speciali afghane hanno impiegato 20 ore circa per mettere fine all’attacco complesso contro la prigione di Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, cominciato domenica sera e rivendicato dalla “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico. Secondo il bilancio fornito dal ministero dell’Interno, sarebbero almeno 21 le persone uccise tra civili, detenuti e membri delle forze di sicurezza, 43 i feriti.

Tra i circa 1.800 detenuti, almeno 300 mancherebbero all’appello, più di 1.000 sarebbero stati catturati dalla polizia dopo una tentata evasione. Iniziato con un’autobomba, l’assalto è proseguito con un lungo combattimento da parte di una decina di militanti bene armati, poi uccisi dalle forze di sicurezza come rivendicato dal generale Yasin Zia, il capo dell’esercito arrivato a Jalalabad da Kabul .

L’ATTENTATO È AVVENUTO il giorno successivo all’annuncio da parte dei servizi afghani dell’uccisione di Asadullah Orakzai, personaggio di spicco dell’intelligence della “Provincia del Khorasan”, che negli ultimi mesi ha subito rilevanti perdite di uomini e territorio, pur continuando a godere di una rete logistico-militare proprio nella provincia di Nangarhar, di cui Jalalabad è capoluogo.

Alla fine del 2019 il governo afghano annunciava a gran voce la sconfitta definitiva dell’organizzazione, grazie a operazioni militari congiunte tra le forze di sicurezza locali, gli americani con le loro bombe, i Talebani sul terreno. Una sorta di banco di prova militare per testare l’affidabilità dei Talebani, che nel febbraio 2020 a Doha hanno incassato l’accordo politico con gli Stati uniti, accordo che li fa rientrare nell’arena diplomatico-istituzionale, aprendo però spazi enormi ai jihadisti dalla vocazione globale, che al compromesso preferiscono le bombe.

Non è un caso che l’assalto sia avvenuto nelle ore finali della tregua di tre giorni iniziata venerdì scorso, in occasione della festa islamica dell’Eid al-Adha. Proposta dai Talebani e accolta dal presidente Ashraf Ghani, la tregua dovrebbe condurre all’inizio del negoziato intra-afghano, più volte rimandato. Serve a questo anche lo scambio di prigionieri tra Kabul e i Talebani: più di 1.000 i “governativi” liberati dai Talebani, 5.000 circa i militanti liberati da Ghani. Che però ha rimandato la decisione sulla scarcerazione di 400 detenuti di alto profilo, autori di crimini gravi, a una Loya Jirga, una grande assemblea che dovrebbe iniziare il 7-8 agosto.

I TALEBANI HANNO RISPETTATO la tregua di tre giorni, negano ogni responsabilità nell’attacco di Jalalabad e incassano il sostegno del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, ma nella compagine governativa afghana non manca chi sostiene la continuità militare-logistica tra i Talebani (specie la rete Haqqani) e lo Stato islamico.

Alla vigilia del negoziato intra-afghano, che potrebbe cominciare il 10 agosto, i cittadini e le cittadine afghane tornano a chiedersi chi vuol far deragliare il processo di pace, e quando arriverà la pace. Qualcun altro continua a chiedere giustizia. Saifullah Ghare Yar ha visto uccidere 4 membri della sua famiglia il 16 febbraio 2011 nella provincia dell’Helmand, durante un raid notturno delle forze speciali inglesi. La sua ostinata richiesta di giustizia, insieme alle inchieste giornalistiche di Bbc Panorama e Sunday Times, stanno facendo emergere gli abusi delle forze speciali inglesi. Secondo alcuni documenti interni, sarebbero decine i casi di sospetti omicidi arbitrari ai danni dei civili afghani.