Incontro «bello e proficuo». Nella manovra «non ci saranno regali alla Renzi» ma rispetteremo «gli impegni presi con tutti a partire da quelli con gli italiani, su tasse, pensioni reddito di cittadinanza e maggiori posti di lavoro». A tarda sera Matteo Salvini è il primo a dire qualcosa sul vertice di maggioranza sulla manovra, convocato per le 18.30 a palazzo Chigi. Frasi obbligate, ma stavolta le tre anime della maggioranza, M5S, Lega e ministro Tria, si incontrano in un clima da «tutti contro tutti». Attorno al tavolo ci sono il premier, i due vicepremier, Tria, Savona e Giorgetti: la cabina di comando della manovra al completo. Sul tavolo dovrebbe esserci solo l’ipotesi di intervenire sulla sanità, per rendere meno onerosi i ticket sia per i farmaci che per le visite, ma le bordate che i due partiti di maggioranza si scambiano da 24 ore rendono difficile limitare l’ordine del giorno. Che infatti si allarga persino oltre i confini della manovra e chiama in causa altri capitoli spinosi come il ponte di Genova o le nomine Rai.

DI MAIO E SALVINI CHIEDONO apertamente di aumentare il deficit sfondando il tetto dell’1,6% fissato dal ministro dell’economia. In caso contrario, spiegano, il contratto non potrà essere rispettato e ad andarci di mezzo potrebbe essere il governo. Non è la sola minaccia messa sul tavolo. Salvini e Di Maio ventilano anche la possibilità di un blitz in parlamento per allargare a forza i cordoni della borsa stretti da Tria. In un caso come nell’altro l’avvertimento è chiaro: insistere sul rispetto rigoroso degli impegni con l’Europa potrebbe portare a esiti disastrosi.

Coalizzati nel braccio di ferro con Tria, i due leader sono divisi su tutto il resto. A scatenare i 5S è il condono che il Carroccio ha depositato fra le sue proposte nelle mani di Tria. Una «pace fiscale» con tetto fino a un milione di euro sarebbe in effetti un condono monstre e Di Maio prova a bloccarlo: «M5S non è disponibile a votarlo. Se parliamo di pace fiscale, stralcio e saldo siamo d’accordo. Se è un condono no». Inevitabile il sospetto, a cui danno voce sia il Pd che LeU, che la questione sia più semantica che sostanziale. Ma l’intemerata del vicepremier a cinque stelle, che parlava rivolto a una platea di industriali, rivela che la tensione sta salendo. Per la Lega, invece, la bestia nera è la promessa di portare a 780 euro le pensioni minime, quelle «di cittadinanza». «Una follia», la ha bollata senza mezzi termini la testa d’uovo economica del Carroccio, Brambilla. L’epiteto non è andato giù nemmeno un po’ a Di Maio: «Parla a titolo personale.

La pensione di cittadinanza è nel contratto di governo: lo sappiamo noi e lo sa anche la Lega».

MA IL VERO SEGNO di quanto intorno alla coperta inevitabilmente corta gli animi si stiano scaldando sta nella reciproca intromissione dei due partiti nelle aree sin qui considerate «appannaggio» dell’altro socio. Il reddito di cittadinanza pentastellato? Per Salvini «va bene, purché non serva per stare a casa a guardare la tv». La Flat Tax del Carroccio? «Sì, ma abbiamo posto come condizione che non aiuti i ricchi ma la classe media e le persone disagiate», frena gli ardori leghisti Di Maio.

LE FRIZIONI intorno alla legge di bilancio tra soci di maggioranza sono inevitabili e consuete. La loro importanza non va ignorata ma neppure esagerata. Meno facilmente risolvibile il contrasto con Tria sulle dimensioni complessive della manovra, esploso chiaramente ieri dopo giorni di false rassicurazioni. A fare i conti in tasca al governo è l’ex commissario alla Spending Review Cottarelli. «Il deficit all’1,6% non causerebbe una reazione eccessiva sui mercati», concede citando il tetto entro il quale è deciso a mantenersi Tria. Ma il percorso, prosegue Cottarelli, è impervio: «Si parte da un 1,7-1,8%, poi bisogna tener conto dei maggiori interessi per lo spread e delle spese indifferibili e si arriva al 2,3%. Di qui bisogna scendere all’1,6% nonostante ci sia chi vuole aggiungere la Flat Tax, il reddito di cittadinanza, la controriforma della Fornero. Il sentiero è stretto».

DEI TRE CAPITOLI citati da Cottarelli, il più delicato è quello sulla Fornero, sia perché non lo si può modulare nel tempo con la stessa facilità delle altre due riforme-cavalli di battaglia della maggioranza, sia perché è sul quel fronte che la commissione europea, e ancor meno la Bce, non sono disposte a cedere. Il problema politico con Bruxelles e Francoforte non è risolvibile in termini di cifre. Il peso economico dell’intervento sulla Fornero invece è ciò su cui si stanno cimentando tecnici del Mef. Il progetto sarebbe quello di far finanziare una parte sostanziosa della revisione della Fornero alle aziende, ricorrendo sia ai fondi di solidarietà che ai fondi esubero. Anche così, sostengono i più critici, il costo sarebbe esorbitante: 13 miliardi. Il sottosegretario leghista al lavoro però smentisce:

«Il vero costo di Quota 100, per il primo anno, è di 6/8 miliardi». Che però, sommati alle altre riforme, alla sterilizzazione dell’aumento Iva e alle spese correnti rendono quasi impossibile rispettare quel confine dell’1,6% che per Tria, ma soprattutto per la Ue, è la linea del Piave.