È stata un’operazione della polizia della Papua Nuova Guinea quella che, ieri mattina, ha cercato di sgomberare il campo rifugiati di Manus. Ma, seppur indirettamente, il mandante sembra a tutti gli effetti Canberra.

Il compito dei poliziotti era fare piazza pulita di persone e cose e così è stato anche se su 350 rifugiati e richiedenti asilo in 300 si sono rifiutati di lasciare il campo – ormai ridotto a una sorta di campo di concentramento senz’acqua, servizi igienici e assistenza medica – che gli australiani hanno dato in appalto al vicino povero per evitare l’arrivo nella ricca terra del canguro.

Nell’epoca di Twitter e smartphone però le cose non sono andate lisce e ieri pomeriggio circolavano immagini agghiaccianti, con gente che stava male e masserizie gettate all’aperto e fatte a pezzi senza lesinare l’uso del bastone.

Un curdo iraniano, il giornalista Behrouz Boochani, lancia l’allarme via Twitter e poi viene preso e portato via proprio mentre cerca di documentare l’assalto. Molti filmano, benché la polizia cerchi di farsi consegnare i telefoni.

La scusa ufficiale, ribadita anche dalle autorità australiane, è che ci sono altri campi già pronti. Ma è falso. Inoltre, i migranti, che l’Unhcr ha comunque identificato e che dunque sarebbero in teoria protetti, non vogliono cambiare sede perché temono ritorsioni da parte della popolazione locale cui non va evidentemente giù che gli australiani abbiano scaricato il problema su Papua e Nauru, la repubblica più piccola del mondo (21kmq) abitata da 10mila residenti e composta da una sola isola.

Boochani (scrive per il Guardian da Manus ed è ben conosciuto da chi segue la vicenda) alla fine viene liberato. Qualcuno decide di uscire dal campo volontariamente. Altri resistono ma poi se ne vanno, in tutto una cinquantina. In 300 restano li.

Un video mostra le condizioni in cui vivono: l’aria condizionata non funziona più, l’acqua non scende dai rubinetti e viene conservata in bidoni porta immondizia, le latrine sono una sentina di microbi e odori. Chi parte va verso Lorengau, la cittadina dove già ci sono stati attacchi contro i migranti e dove si trovano i centri nuovi ma non ancora terminati.

In Australia, che ha scaricato altrove il problema profughi, fanno i pesci in barile. Roba di Papua, dicono i funzionari e lo stesso ministro dell’Immigrazione, Peter Dutton, che ricorda come gli australiani abbiano già sborsato milioni. Il premier Malcolm Turnbull, leader del Partito Liberale, fa spallucce e reitera che il suo Paese ha le porte chiuse. Anche i laburisti non si compromettono troppo e indicano la Nuova Zelanda che con gli Usa (che poi però hanno in parte ritrattato), si è offerta di dare asilo.

Ma Canberra non vuole che i migranti vadano in Nuova Zelanda. Troppo vicino a casa loro. Fan la voce grossa i verdi per i quali è una «giornata tetra e triste della storia» dell’Australia. E così altre voci che dissonano col governo della porta chiusa. Che resta tale.