Tre giorni ci hanno messo, solo tre giorni. E un accordo politico stipulato tra negoziatori autorizzati e discusso in settimane o mesi, è saltato in aria all’improvviso. La «Commissione d’inchiesta sull’assalto al Campidoglio» è partita, ed è un fatto storico: la camera l’ha approvata con un rotondo 252-175, significa che un pugno di deputati repubblicani ha infranto la disciplina di partito. Ma la «Commissione 6 gennaio», come viene anche chiamata, è pronta per essere silurata al senato: servirebbero almeno 10 franchi tiratori repubblicani ma, che sorpresa, l’accordo che pareva fatto si è sciolto. Qualche telefonata da Mar-a-Lago, la supervilla in Florida dove l’ex presidente Trump trascorre un impegnativo esilio, e la storica commissione non s’avrà da fare.

L’AGGRESSIONE AL CAMPIDOGLIO è già roba da libri di storia: 5 morti, 140 feriti e circa 400 arresti, fino ad ora, per quello che è stato il più grave degli attacchi interni alla democrazia americana. All’inizio di febbraio i democratici avevano promesso una commissione d’inchiesta «come quella sull’11 settembre» (che in effetti indagò a lungo e produsse un corposo librone, ma lasciò agli storici molti interrogativi).

Le commissioni d’inchiesta parlamentari o presidenziali sono parte del costume politico americano. La prima la nominò George Washington nel 1797, per indagare sulla «Ribellione del whiskey» di Philadelphia, quando coltivatori di grano e distillatori malmenarono un po’ di esattori federali venuti a incassare una nuova tassa di qualche centesimo al gallone. Washington armò l’esercito e lo condusse personalmente ma qualche arresto fu sufficiente, la commissione stroncò le ultime velleità dei distillatori di grano della Pennsylvania – mentre quelli del Kentucky si buttarono sul mais esentasse e inventarono il bourbon. C’è da dire che l’onesto presidente, concluso il mandato, diventò il primo produttore di whiskey dei neonati Stati uniti.

Da febbraio a oggi, democratici e repubblicani hanno negoziato su modalità e limiti della «Commissione 6 gennaio». Chi sapeva dell’assalto, quanto sapeva, se è stato ordinato e coordinato e da chi, oppure se sia stato un sussulto di spontaneismo violento, e di chi. Tutto gira intorno allo stesso nome: Donald Trump, la sua tremenda conferenza stampa fuori dal palazzo, le poco velate richieste di intervento contro la frode elettorale, e poi l’attacco alla sede del parlamento nel momento in cui stava per votare il nuovo presidente e rendere irreparabile la sconfitta.

CAPIRE L’ASSALTO al Campidoglio è capire il trumpismo, fenomeno tutt’altro che vinto. È capire un pezzo di storia americana. Se lo strumento giusto sia una commissione d’inchiesta è discutibile, in Italia ne abbiamo una triste esperienza e negli Usa ne hanno nominate almeno 150 negli ultimi trent’anni, ma hanno anche scritto pagine di storia – e non sempre quella desiderata da chi le aveva nominate. La commissione Kerner sulla rivolta nera di Detroit fu voluta da Lyndon Johnson e concluse che «il nostro paese muove verso due società, una nera, una bianca – separate e diseguali». Sembra scritto ieri, invece era il 1968. Johnson non si ricandidò.

E COSÌ IL NEGOZIATORE repubblicano John Katko lunedì è stato inviato dal partito a chiudere l’accordo (10 commissari tutti esterni al Congresso, presidente democratico e vice repubblicano), martedì è stato buttato politicamente sotto un tram da tutti i capi del Grand Old Party che si sono sfilati in massa, mercoledì hanno votato (quasi) tutti contro. Da Mar-a-Lago poche caustiche frasi soddisfatte. Trump ha già sei inchieste sul groppone e quella di New York – in sostanza, valori immobiliari gonfiati quando deve ottenere un prestito e sgonfiati quando deve pagare le tasse – è appena diventata penale. Non aveva bisogno di una Commissione anti-squadrismo.