Preferisce considerare le sue incursioni narrative nella Storia e nell’attualità politica come dei semplici casi – «Volevo scrivere altro, ma poi ci sono ricascato», ha spiegato più volte -, quasi che misurarsi con la realtà che gli sta intorno sia in qualche modo inevitabile, anche se non frutto di una scelta deliberata e senza la voglia di trasformare questo approccio in alcuna «dichiarazione di intenti». Malgrado siano note le sue posizioni di sinistra. A cinquantré anni Assaf Gavron, che sarà domani ospite del festival romano «Letterature» (Stadio Palatino, ore 21) rappresenta una delle voci più importanti e affermate della narrativa israeliana, uno dei protagonisti della generazione – è coetaneo di Nevo e Keret -, apparsa dopo i vari Kenaz, Oz, Grossman, Yehoshua.

Lo scrittore Assaf Gavron

Nell’arco di poco più di un decennio Gavron si è imposto all’attenzione internazionale grazie a un pugno di romanzi, perlopiù pubblicati nel nostro Paese da Giuntina, dove con una lingua chiara, uno stile che non disdegna di sottolineare gli aspetti ironici delle vicende descritte e la consapevolezza di giocare con dei riferimenti di «genere», dal giallo al thriller, affronta temi e momenti decisivi della storia israeliana. Da La mia storia, la tua storia (Mondadori, 2009), dove le esistenze di due adolescenti, l’uno palestinese e l’altro israeliano finiranno per essere risucchiate dagli eventi fino alle estreme conseguenze all’epoca della seconda Intifada; a Idromania (Giuntina, 2013), un fantathriller ambientato nel 2067, in un Medioriente che vede i palestinesi occupare gran parte di Israele, mentre la lotta per il controllo delle risorse idriche del pianeta contrappone multinazionali cinesi, giapponesi e ucraine; da La collina (Giuntina, 2015) che attraverso la vita quotidiana di un insediamento di coloni nei Territori occupati racconta i molti volti, contraddittori del Paese, a Le diciotto frustate (Giuntina, 2019) in cui dall’epoca del Mandato britannico riemergono una storia d’amore e un segreto che devono essere celati anche al costo di un omicidio.

I suoi romanzi sembrano più interessati a cogliere e a restituire una dimensione corale, concentrandosi sull’interazione tra i vari personaggi, quale ne sia la natura e il profilo, piuttosto che sullo sviluppo di una narrazione esclusivamente individuale. Immagina la scrittura come un’occasione di incontro, di confronto con «l’altro»?
Non ho mai pensato consapevolmente a questo aspetto dei miei libri. L’interazione è alla base della vita. Nasciamo in famiglie, abbiamo amici, viviamo in società, a scuola, al lavoro e ogni passo che facciamo ha a che fare con l’incontro con altre persone. Eppure ciascuno, nella vita come nei romanzi, ha un percorso tutto suo, un carattere che può essere influenzarlo dagli altri, anche se probabilmente questo non cambierà davvero il proprio nucleo interiore, la parte più intima di sé. Così, anche le mie storie contengono questa combinazione di elementi. In alcune, penso a La collina, prevale questo aspetto di natura «collettiva», mentre in altre, come La mia storia, la tua storia e Idromania, la dimensione individuale emerge da un contesto più generale, anche se la società in cui si muovono questi individui ha sempre un ruolo molto importante nelle vicende narrate.

Le «diciotto frustate» che danno il titolo al suo ultimo libro evocano una vicenda reale – le punizioni corporali che venivano inflitte dagli inglesi ai combattenti ebrei durante il Mandato britannico, ripagate con la stessa moneta da questi ultimi – ma anche un aspetto paradossale di questo contesto drammatico: il fatto che essere frustati potesse essere ritenuto addirittura peggiore che l’impiccagione. Anche nei momenti più terribili i suoi personaggi non rinunciano a cogliere il contorno implicitamente umoristico di quanto sta accadendo.
A mettere l’accento sull’importanza delle frustate inflitte ai combattenti clandestini ebrei durante il Mandato, che lui considerava un’umiliazione peggiore della stessa impiccagione fu Menachem Begin, come spiego nel libro. Per lui l’idea che i combattenti potessero morire in guerra era accettabile, ma umiliarli con le fruste no, era qualcosa che lo faceva impazzire. Begin, che sarebbe diventato primo ministro di Israele nel 1977 dedicò a questa vicenda un intero capitolo della sua autobiografia. Per lui era una cosa molto seria. Detto questo, personalmente ho colto invece il lato divertente di questa battaglia di frustate e vendette tra soldati britannici e combattenti ebrei: ciò che mi ha attirato in primo luogo nella vicenda è stato proprio questo aspetto assurdo all’interno di un situazione grave, drammatica, dove in gioco c’erano costantemente la vita e la morte. In effetti è così che guardo agli eventi storici, cercando di analizzarne i singoli elementi e di estrarre da essi le emozioni delle persone coinvolte. Ed è vero, sono particolarmente attratto dai lati umoristici dei fatti drammatici, a volte strazianti e tragici che attraversano la storia come l’attualità del mio Paese. A proposito, non credo di essere l’unico, all’epoca di quelle vicende la stampa mondiale pubblicava esilaranti caricature che ritraevano gli inglesi che ricevevano le frustate dagli ebrei…

Veniamo ad un altro suo romanzo. Cosa ha spinto uno scrittore progressista di Tel Aviv a frequentare per qualche tempo un insediamento di coloni nei Territori occupati per scrivere un libro come «La collina» dove accanto all’odio e alla violenza c’è spazio per la gioia e l’amore? Ma soprattutto, cosa ha scoperto attraverso questa esperienza?
Credo faccia parte del nostro lavoro di scrittori esplorare quella complessità di colori grigi, che non sono mai solo bianco o solo nero, dentro cui si cela la realtà. E far emergere come ci sia sempre spazio per la gioia e l’amore anche nei luoghi di cui di solito si nota solo lo strato immediatamente visibile di odio e violenza. In particolare, sono stato attratto dai coloni perché si tratta di una minoranza molto piccola all’interno della società israeliana, ma che sembra esercitare un potere e un’influenza molto grandi sugli eventi, in ogni caso ben al di là della propria consistenza. Mi oppongo e mi sono sempre opposto alle loro opinioni e alle loro azioni, ma volevo osservare da vicino la loro vita quotidiana, come educano i figli, le relazioni nelle coppie, tra fratelli e con le autorità. Ho scoperto che sono persone come noi, diverse, ciascuno con le proprie caratteristiche individuali, alcune mosse dall’odio, altre più amorevoli, intelligenti, stupide. Ogni stereotipo di un gruppo nasconde molti individui che non rispondono a quegli stessi stereotipi. Questo non significa in alcun modo che mi abbiano convinto, al contrario, resto un netto oppositore delle loro idee. Le mie opinioni politiche non sono cambiate neanche un po’. Ho solo raccontato un altro pezzo di mondo.

Nei romanzi di molti scrittori della sua generazione, come di quella del compianto Amos Oz, si ha l’impressione che il conflitto che divide israeliani e palestinesi sia affrontato con grande chiarezza e puntando sulla necessità del dialogo tra le parti. Eppure questa opinione non è maggioritaria In israele: i romanzi vengono letti con maggiore attenzione all’estero o stiamo sopravvalutando il ruolo della letteratura?
Se ci aspettiamo che la letteratura cambi il mondo ne stiamo decisamente sopravvalutando l’importanza. Ma non credo che la maggior parte delle persone se lo aspetti, in ogni caso, io no. Non scrivo per cambiare o per educare qualcuno, per gli israeliani o per i lettori del resto del mondo. Ma se le persone si divertono con i miei libri, ciò mi rende felice. Allo stesso modo, se leggendoli imparano qualcosa o se questo dà loro una prospettiva più ampia e una comprensione più chiara dell’essere umano o di un elemento, anche minuscolo della Storia, della geografia o di qualunque altra cosa, vuol dire che il mio lavoro è andato a buon fine. Non penso che i miei libri, o i libri di Oz, offrano una soluzione, o dicano alla gente di fare questo o quello. Raccontano storie, che potenzialmente creano degli effetti positivi su chi li legge.

Ha lavorato a lungo nel campo delle nuove tecnologie e ha partecipato alla creazione di un videogioco chiamato «Peacemaker» ambientato all’interno del conflitto mediorientale. Di cosa si tratta?
Ho incrociato da tempo la mia scrittura con il lavoro nel settore dell’hi-tech. «Peacemaker» è un progetto a cui ho lavorato già quindici anni fa. Ogni giocatore ha la possibilità di scegliere se essere il primo ministro israeliano o il presidente palestinese e cercare di raggiungere la pace «navigando» attraverso tutti gli ostacoli e i diversi gruppi che incontra sul suo cammino: gli elettori, i terroristi, le potenze internazionali e via dicendo.