Un risultato senza sorprese: il presidente siriano Bashar al-Assad è stato rieletto con l’88,7% dei voti per il terzo mandato consecutivo. Oltre dieci milioni di preferenze. I due sconosciuti (e comunque vicini alla famiglia presidenziale) avversari, l’uomo d’affari Nouri e il comunista Hajjar, si sono fermati rispettivamente al 4,3% e al 3,2%. Niente di nuovo sotto il sole siriano, nemmeno le dure critiche dei Paesi anti-Assad.

Ieri le città dove il regime mantiene il controllo, le sole in cui si è votato, celebravano la vittoria. Fuori dai seggi, martedì, e di nuovo ieri i sostenitori del presidente – sia sunniti che sciiti – hanno festeggiato Assad, «l’unico in grado di garantire pluralismo religioso, diritti sociali e diritti delle donne». A spaventare, dicono, è l’avanzata delle opposizioni islamiste, le più forti oggi sul terreno, che in pochi mesi hanno marginalizzato i moderati della Coalizione Nazionale e dell’Esercito Libero. «Prima della guerra era vergognoso chiedere a qualcuno di che religione fosse – dice Saleh, avvocato di Damasco – La Siria è un mosaico di fedi e prima questo non era un ostacolo».

Senza l’appoggio di buona parte della maggioritaria comunità sunnita, Assad non avrebbe retto tanto a lungo. A monte – dicono alla stampa i suoi sostenitori – i servizi economici e sociali che il regime alawita ha garantito, educazione e sanità gratuite, sussidi agli indigenti, reti idriche e elettriche. Non mancano, però, quelli che temono ritorsioni per non essersi presentati alle urne, riconoscibili dall’assenza della macchia di inchiostro sul dito.

La riconferma di Assad, che giurerà il 17 luglio e indicherà alla nazione la strategia a seguire, lo rende più forte all’interno e non farà – temono gli analisti – che inasprire il conflitto.

Chi non ha sorriso, ieri, era l’amministrazione Obama. Da Beirut, il segretario di Stato Kerry ha “salutato” la vittoria di Assad definendola «un enorme zero»: «Non può essere considerato un voto democratico, in milioni non hanno avuto la possibilità di esprimersi. Niente era cambiato il giorno prima delle elezioni e niente cambia il giorno dopo: la guerra è la stessa, il terrore è lo stesso».

Simile la reazione di Bruxelles («Elezioni non democratiche»); opposta quella della Russia e di altri 30 Paesi – dall’Iran al Venezuela – che hanno inviato le proprie delegazioni in Siria per monitorare il voto.

Ma nonostante il tentativo abortito di un attacco contro Damasco, lo scorso anno, e l’instancabile sostegno militare e finanziario agli oppositori siriani, Washington ha paura di assecondare le pressanti richieste dei ribelli, a cui armi anti-tank e anti-missile non bastano più. Chiedono armamenti ingenti che gli permettano di spazzare via la resistenza del regime, che si gode il sostegno di Hezbollah e Iran. A frenare Obama il timore che finiscano nelle mani delle formazioni qaediste, ben più pericolose di Assad.

Sullo sfondo il fallimento della diplomazia di Ginevra 2, su cui oggi sono in molti a versare lacrime di coccodrillo. Dal voto siriano esce una certezza: impossibile fermare la guerra civile senza coinvolgere il presidente nella transizione.