Kayla Muller è morta a Raqqa, la «capitale» del califfato, sotto le macerie di un palazzo distrutto dall’aviazione giordana. Le bombe di Amman dovevano vendicare il pilota al-Kasasbeh, bruciato vivo dall’Isis. A pagare anche la cooperante statunitense, rapita ad Aleppo nel 2013. Lo ha confermato ieri lo stesso presidente Obama, preparando il terreno ad un ampliamento dei poteri della Casa Bianca: oggi il presidente dovrebbe ufficialmente chiedere al Congresso un’autorizzazione speciale per usare la forza contro lo Stato Islamico, un’estensione degli attuali poteri che non era stata realizzata dal post-11 settembre.

In attesa dei dettagli, voci vicine al presidente hanno rivelato che il Congresso dovrebbe autorizzare l’uso della forza militare per tre anni senza limitazioni geografiche (purché si tratti di Isis o sue diramazioni) e il possibile dispiegamento di truppe di terra.

Così la Casa Bianca può utilizzare l’uccisione di Kayla, morta sotto la scure della rappresaglia giordana che ha bisogno di dare in pasto alla sua opinione pubblica sangue islamista per calmare le tensioni interne. Amman, dopo aver giustiziato due membri di al-Qaeda e aver lanciato 56 raid su Mosul e Raqqa, ha dato i numeri: in pochi giorni i jet hashemiti avrebbero distrutto il 20% delle capacità militari dello Stato Islamico, numeri davvero alti per essere credibili.

Per tenere buona una popolazione che non digerisce la guerra all’Isis di re Abdallah, Amman ieri ha dispiegato «migliaia di soldati» al confine con l’Iraq, hanno fatto sapere alla Nbc due funzionari. L’obiettivo, dicono, è impedire l’infiltrazione di miliziani in territorio giordano. Eppure Amman gli islamisti rischia di trovarseli comunque in casa: la Giordania è il terzo paese di provenienza dei combattenti stranieri membri dello Stato Islamico.

«Siamo determinati a cancellare l’Isis dalla faccia della terra», aveva detto domenica il generale al-Jabour, capo dell’aviazione militare giordana, forte del sostegno Usa. Washington, lo stesso giorno della pubblicazione del video della morte di al-Kasasbeh, ha raddoppiato gli aiuti ad Amman, da 660 milioni di dollari l’anno a un miliardo. C’è però chi l’aiuto giordano non lo vuole: è il presidente siriano Bashar al-Assad che ha chiarito di nuovo di non accettare alcuna interferenza da parte di paesi stranieri. Soprattutto dalla Giordania che da anni sostiene le opposizioni moderate a Damasco, addestrandole insieme alla Cia e rifornendole di armi via Turchia.

Ma con l’Isis che avanza, i ribelli moderati ricacciati indietro dagli islamisti, l’Esercito Libero (sul campo siriano principale riferimento della coalizione internazionale) messo all’angolo da al-Nusra e califfato e la Russia che non intende abbandonare Damasco, Assad è il male minore.

In un’intervista rilasciata ieri alla Bbc, il presidente siriano lo ha detto chiaramente: paesi membri della coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti comunicano a Damasco i prossimi raid, fin da settembre. Non sono direttamente gli Usa, con cui Assad nega di avere una cooperazione diretta, ma paesi come l’Iraq, che forniscono «informazioni»; non dialogo, ma informazioni, per coordinare indirettamente l’azione anti-califfo: la possibilità di una cooperazione in passato è stata avanzata da Assad, che si è visto chiudere la porta in faccia da Washington.

Ma dopotutto il governo di Damasco – seppur controlli oggi solo un terzo del paese – è l’unica vera forza contro l’avanzata islamista, con l’Isis che controlla un terzo della Siria (il nord e l’est, verso il confine con l’Iraq) e al-Nusra che si mantiene stabile a sud e nord-ovest. Impossibile per la coalizione anti-Isis non fare riferimento al governo.

Così Assad manda un messaggio a Usa e avversari arabi, che da tempo lavorano neanche troppo dietro le quinte per far cadere il governo alawita e indebolire l’asse sciita Iran-Siria-Hezbollah: nessuno può violare la sovranità siriana, tutti devono passare per Damasco. E se davvero si vuole distruggere il califfato, non si potrà fare a meno delle truppe di Assad, che si riserverà di dire no: «Non faremo mai parte di una coalizione che sostiene il terrorismo», ha concluso il presidente.