La tregua siriana regge a metà. Governo e opposizioni chiudono ogni giornata con la lista delle reciproche violazioni, ma né Damasco né l’Hnc pensano a metterla in serio pericolo. Chi la viola è la Turchia che, auto-esentatasi dalla cessazione delle ostilità, continua i raid contro i kurdi di Rojava. Ieri a denunciare Ankara è stato il Ministero della Difesa russo: 4 giornalisti stranieri (parte di un gruppo di 33 reporter) sarebbero stati feriti nella provincia di Latakia da missili lanciati dal Fronte al-Nusra dal confine turco.

Non è possibile verificare le accuse che si aggiungono alle condanne russe nei confronti turchi: non solo bombardamenti contro le Ypg, ma anche il solito traffico di uomini e armi alla frontiera. Interviene anche il presidente Assad, nella prima intervista rilasciata dopo l’entrata in vigore della cessazione delle ostilità: «Faremo la nostra parte per far funzionare le cose», ha detto alla tv tedesca Ard, definenendo l’accordo «un barlume di speranza».

Alle sue dichiarazioni non credono le opposizioni che ieri denunciavano la caduta di volantini su Ghouta, zona di Damasco roccaforte di Jaysh al-Islam e Esercito Libero: il governo chiederebbe ai residenti di espellere dal quartiere i miliziani in cambio di un corridoio sicuro e dell’amnistia.

È lo stesso Assad a confermare l’intenzione di graziare i combattenti delle opposizioni che abbandoneranno le armi: «Lasciate le armi, sia che vogliate partecipare al processo politico sia che non ne siate interessati. Noi vi garantiremo la piena amnistia».
Sull sfondo stanno le agende delle due super potenze, intenzionate a proseguire con il negoziato che secondo l’inviato Onu de Mistura partirà il 9 marzo.

Mosca e Washington sono consapevoli della necessità di una stabilizzazione, confermata dall’avvicinamento delle posizioni in merito al governo di unità e al ruolo temporaneo del presidente Assad. Le reciproche accuse di violazioni servono, in questo momento, solo a rafforzare il rispettivo potere negoziale.

Lo stesso obiettivo dell’Arabia Saudita che veste i panni dell’incendiario con poca convinzione: lunedì il generale saudita Asseri, capo della coalizione sunnita in Yemen, ha fatto sapere di aver discusso con la Casa Bianca un possibile intervento via terra in Siria, ma è ormai chiaro che i Saud non intendono imbarcarsi in un’impresa senza sostegno internazionale.

Lo dimostra anche la reazione delle opposizioni sul terreno, guidate e finanziate da Riyadh, che non reagiscono alle violazioni che denunciano. La calma che regna in molte zone della Siria sta permettendo all’Onu di proseguire con la consegna degli aiuti: da sabato sono stati raggiunti 116mila civili, altre 150mila riceveranno cibo entro la settimana e 700mila entro la fine del mese.

Così si spera di portare sollievo alle persone sottoposte, dice l’Alto Commissario ai Diritti Umani Onu Zeid Ra’ad al-Hussein, «ad una deliberata denutrizione». Anche qui risponde Assad: «Come possiamo tagliare fuori queste aree dalla consegna del cibo se non possiamo impedire l’arrivo di armi? Il paese non è più del tutto sovrano». Per questo, aggiunge, ha bisogno di russi, iraniani e libanesi.

Tanti sono i combattenti stranieri impegnati nel campo di battaglia. Secondo le intelligence straniere quelli tra le fila dell’Isis sono, però, in diminuzione: se ne vanno per paura della possibile controffensiva internazionale. E vengono puniti: secondo il gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently, 8 jihadisti olandesi sono stati giustiziati e 3 arrestati nella provincia di Raqqa perché avrebbero tentato di disertare.

A Mosul l’Isis avrebbe invece giustiziato Ahmed Abdulsalam al-Obeidi, il proprio “ministro” delle Finanze per tradimento, e imprigionato 11 leader in Iraq. Il segno di un indebolimento interno del gruppo? Lo smentirebbero gli attentati di questi giorni intorno Baghdad dove riparte la controffensiva governativa: preoccupata per la tenuta della capitale, l’esercito ha dispiegato 7mila uomini in un’ampia operazione per riassumere il controllo delle zone a nord di Baghdad, da Samarra a Baiji, corridoio di terre che permette all’Isis di collegare Mosul al sud dell’Iraq.