Le Nazioni Unite plaudono all’apertura del presidente siriano Assad sulla possibilità di siglare cessate il fuoco locali nelle aree contese tra opposizioni e governo. Ieri l’inviato speciale Onu in Siria, Staffan de Mistura, ha parlato di segnali positivi, di una luce in fondo al tunnel della guerra civile, seppure l’Esercito Libero Siriano abbia già chiuso a tale opzione.

La dichiarazione è giunta dopo l’incontro con Assad, domenica a Damasco, durante il quale il presidente si è detto pronto a valutare la proposta Onu. La risposta del governo siriano «è stata di costruttivo interesse – ha detto de Mistura – Credo che la proposta di congelamento [del conflitto] ad Aleppo sia concreta e realistica».

In un’intervista alla Bbc, de Mistura (che ha incontrato anche il ministro degli Esteri Muallem con il quale ha avviato il dialogo per l’apertura di corridoi umanitari) ha poi dichiarato che una simile operazione rappresenterebbe una minaccia all’avanzata dello Stato Islamico. Da implementare, quindi, non solo per favorire il dialogo interno, ma anche per togliere terreno fertile all’Isis.

Tanto ottimismo è stato subito smorzato dagli Stati uniti: ieri ai margini del vertice Apec di Pechino, il presidente Usa Obama ha incontrato il presidente russo Putin. Dei contenuti della chiacchierata si sa poco. Di certo la questione Isis è stata toccata, ma le posizioni restano distanti: Mosca non intende mollare l’alleato Assad e insiste perché sia parte della transizione politica; Washington con Damasco non vuole discutere, ritenendo il governo alawita un ricordo del passato. Tale presa di posizione è stata ribadita dall’inviato Usa in Siria, Daniel Rubinstein, che alla controparte russa ha posto subito come precondizione la caduta di Assad.

Una visione cieca: come sottolineato dallo stesso de Mistura, è chiaro che in Siria non sta vincendo nessuno né nessuno vincerà. Tantomeno le opposizioni moderate su cui Washington ha puntato credibilità politica e milioni di dollari e che ad oggi sono rilegate in un angolo dello scontro dall’avanzata Isis.

La stessa strategia militare Usa in Siria e Iraq è estremamente limitata. Ieri i primi consiglieri militari statunitensi sono arrivati nella provincia di Anbar, uno dei teatri cuore dello scontro: «Posso confermare che circa 50 soldati Usa stanno visitando la base aerea di Al-Asad – ha detto la portavoce dell’esercito, Elissa Smith – per un’ispezione che servirà ad assistere in futuro le locali forze di sicurezza». Ovvero, l’esercito iracheno, quello che, nonostante la frammentazione interna e la scarsa preparazione militare, è lanciato da solo in prima linea.

Alcune piccole vittorie non mancano (ieri le truppe governative hanno ripreso il 75% della città di Baiji, sede della più grande raffineria di petrolio irachena, a poca distanza dalla strategica Tikrit), ma nel complesso le operazioni gestite dai soldati di Baghdad non permettono di frenare l’avanzata dell’Isis, anche a causa del palese ostruzionismo di molte comunità sunnite che guardano all’esercito sciita come ad un ulteriore strumento di oppressione.

Stesso dicasi per la resistenza kurda, lasciata quasi del tutto da sola a combattere contro la macchina da guerra islamista: ieri i combattenti kurdi sono riusciti ad avanzare ancora a sud, dentro la città assediata di Kobane, riassumendo il controllo di alcune strade e di alcuni edifici.

Ma la situazione resta di piena emergenza. I dati snocciolati ieri dall’Unhcr raccontano una crisi con pochi precedenti: secondo l’agenzia Onu per i rifugiati, sono circa 13,6 milioni (l’equivalente della popolazione di Londra) i civili siriani e iracheni oggi profughi del conflitto in corso, molti dei quali privi di un alloggio e di cibo a causa del deficit dell’agenzia, a cui servirebbero 58 milioni di dollari per assistere almeno un milione di persone. L’inverno è alle porte, un altro inverno di enormi sofferenze.