Vi prometto che non sarà una storia meno vera solo perché è anche la mia». Un incastro tra l’io e il noi tiene il lettore inchiodato. Si intitola Il cielo oltre le polveri. Storie, tragedie e menzogne sull’Ilva l’ultimo libro della giornalista tarantina Valentina Petrini, edito da Solferino. Il capoluogo jonico, a lungo dimenticato all’ombra dei fumi dell’acciaieria più grande d’Europa, irrompe con la crudezza e la commozione che solo un’inchiesta complessa ed esaustiva è in grado di suscitare.

Valentina Petrini, come nasce quest’idea?

Dal desiderio di fare il punto su un’inchiesta a cui ho dedicato molti anni della mia carriera giornalistica, ma anche dalla necessità di raccontarla in una chiave internazionale che desse alla storia di Taranto un respiro globale. La scelta di raccontarmi in prima persona è dovuta. È un patto di lealtà con il lettore che ritenevo fosse giusto sapesse da me che i luoghi che narro e le persone a cui do voce per me non sono solo nomi, ma la mia gente.

«Io, i miei e il tumore» è un capitolo del libro. Come l’ha cambiata la malattia di sua madre e come ha cambiato lo sguardo che riponeva sulla sua città?

È un paragrafo doloroso. Per fortuna lo racconto con la sollevazione di chi ne è uscita senza perdite incolmabili. Con il tumore di mia madre ho scoperto che i malati oncologici a Taranto spesso hanno ricevuto le stesse raccomandazioni, fatte a voce e mai messe nero su bianco: «Se può, non resti a Taranto, si sposti verso il mare, è importante la qualità dell’aria che respira». Non ho nessun elemento per dire che il suo tumore al seno sia legato all’inquinamento. Il dubbio però è un morbo che ti mangia dentro, ti consuma. E quando ho capito che Taranto era una città avvelenata, anch’io mi sono sentita così.

La sicurezza sul lavoro è la prima delle emergenze su cui ha riposto la sua attenzione.

Nel libro ricostruisco due casi simbolo: la morte di Francesco Zaccaria e quella di Alessandro Morricella. I temi ambientali non sono slegati da quelli della sicurezza. Se su un impianto non si attua la manutenzione necessaria in nome del profitto, questa scelta è figlia della stessa non curanza che ha relegato in secondo piano gli investimenti in nuove tecnologie. Zaccaria e Morricella sono stati due morti scomodi, avvenuti mentre era in atto il braccio di ferro tra governo/magistratura sulle sorti della fabbrica. Per il primo ad oggi ci sono solo condanne di primo grado e nessuno dei nomi coinvolti è un nome di peso. Per il secondo non c’è proprio nulla. Che democrazia è quella che non garantisce nemmeno processi giusti e veloci?

Capita spesso a Taranto…

Le vite di questi due uomini mi hanno devastata. Ho cercato di restituirne il ritratto di chi erano veramente da vivi. «Non chiamarle morti bianche» mi ha fatto promettere papà Amedeo Zaccaria. Non lo sono, ha ragione. Ma mi faccia anche dire che Zaccaria e Morricella in questo libro hanno un ruolo più grande: parlano per tutti i morti sul lavoro. Sono un grido unico per non dimenticare che l’assuefazione a queste tragedie, va scardinata. Non è normale uscire di casa per andare a lavorare e non tornare mai più.

Ha il grande merito di aver contribuito a portare il dramma dei tarantini nelle case degli italiani. Cosa si sapeva prima del processo «Ambiente svenduto»?

L’inchiesta «Ambiente Svenduto» ha il merito di aver tentato di stabilire per la prima volta un nesso di causalità (in primo grado la Corte ha riconosciuto con le condanne questo nesso, attendiamo però ancora le motivazioni). Ma questo processo non sarebbe esistito senza le precedenti ricerche scientifiche. Siamo risaliti a fonti dell’Oms degli anni ‘90. Ad atti di denuncia degli anni ’70. L’impatto dell’inquinamento sulla salute pubblica era già noto. Ma un nesso causale in ambito scientifico è diverso da uno in ambito giudiziario.

Nel suo libro c’è anche la testimonianza del gip Patrizia Todisco…

Che la giudice Todisco abbia finalmente deciso di rompere il lungo silenzio con riflessioni che vanno al di là del caso jonico è una notizia importante. Spero farà discutere. Dopo la firma del sequestro dell’area a caldo senza facoltà d’uso, Todisco sollevò «la questione di costituzionalita» davanti alla Corte costituzionale contro il decreto legge con cui il governo stabilì che i siti di interesse strategico nazionale potessero continuare la loro attività produttiva e commerciale anche in caso di sequestro. L’escamotage con cui di fatto fu concesso all’ex Ilva di continuare a produrre. Quel sequestro è tutt’ora in piedi, ma la Corte Costituzionale nel pronunciarsi disse una cosa che a cascata riguarda tutti i settori lavorativi.

Cioè?

Ha stabilito l’esigenza di «bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro». Ha detto anche che non esiste un diritto tiranno su un altro. Le implicazioni di un pronunciamento del genere sono tante e purtroppo poco dibattute. È incredibile come la sinistra e i sindacati abbiano completamente snobbato questa decisione. In questo bilanciamento dei diritti, si chiede la giudice, la malattia e la morte di quante persone si può accettare che avvenga, o che possa avvenire, a fronte di un’attività produttiva che garantisce posti di lavoro ma si accerti essere causa di malattia e morte? Qui parliamo di Costituzione, revisione e interpretazione di diritti. L’aveva ben spiegato Stefano Rodotà: «Ci sono momenti in cui diritti sono un lusso», disse. Oggi «se ne misura la compatibilità con la logica dell’economia». Questa distorsione ha normalizzato il conflitto tra salute e lavoro. Se fossero stati rispettati entrambi sin dall’inizio, il conflitto non ci sarebbe stato.

Con la guerra in Ucraina, sembra che la crisi climatica non esista più…

Quella in Ucraina non è una guerra per il petrolio e il gas ma è innegabile che abbia messo a nudo le distorsioni della nostra dipendenza da petrolio e gas. Dipendenza insostenibile dal punto di vista ambientale, economico e dei diritti. Con i miliardi ricavati dalla vendita del gas Putin finanzia la propria industria di armamenti. E siccome in Italia i dibattiti sono spesso superficiali, la risposta a come uscire dalla crisi energetica sono trivelle e carbone. Ho il timore che la guerra diventi il pretesto per dire addio ai piani di transizione. Così come per la tanto decantata decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto. Non conosciamo progetti e investimenti.

Che ne sarà di Taranto?

La stessa sorte che toccherà al pianeta se non sarà all’altezza della sfida climatica. Avremmo tutte le carte in regola per essere la capitale della transizione ecologica, per capovolgere il paradigma di città inquinata. Ma al momento la direzione è un’altra. Le risorse per la decarbonizzazione non ci sono. È in previsione (e chissà…) solo un forno elettrico su cinque. Le bonifiche non sono ancora terminate. E poi restano le solite odiose contraddizioni. L’ex Ilva chiuderà il 2021 con 3,5 miliardi di ricavi, ma da marzo c’è una nuova cassa integrazione per 3 mila lavoratori, 2.500 dei quali a Taranto. Il sogno di vedere «Il cielo oltre le polveri» temo si farà ancora attendere. Ovunque c’è un cielo nero, tenebroso che ci sovrasta. E a me fa paura.