Più ricchezza, meno diritti. È la tendenza principale del 2018 nella regione asiatica: l’economia che cresce – anche se non per tutti – da una parte, l’autoritarismo, spesso nutrito di una retorica fortemente nazionalista e identitaria, dall’altra. Esemplare l’India: nel 2018 il presidente Narendra Modi ha finito per imporre quel nazionalismo hindu che gli serve per traghettare se stesso e il suo partito, il Bharatiya Janata Party, verso le elezioni del 2019. Chi non è d’accordo è un dissidente.

In Bangladesh Sheikh Hasina, prima ministro dal 2009, ha represso le opposizioni, assunto il controllo del ramo giudiziario e ridotto gli spazi democratici, anche quelli dell’informazione. Attivisti arrestati, oppositori spariti: il prezzo per un’economia che cresce all’8% annuo. Anche Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine salito al potere nel maggio 2016, rivendica un 2018 di crescita e stabilità economica.

Di diritti, neanche a parlarne. Le istituzioni servono solo ai propri scopi. Deve aver pensato così anche il presidente dello Sri Lanka, Maithripala Sirisena, che a fine ottobre ha silurato il primo ministro Ranil Wickremesinghe, sostituendolo con Mahinda Rajapaksa e sciogliendo il Parlamento.

Il 14 dicembre la Corte Suprema ha dichiarato illegale la decisione, ma i contrasti politici sono ancora aspri. In Cambogia, il primo ministro Hun Sen, al potere dal 1985, ha vinto le elezioni del 29 luglio. Che abbia smantellato il principale partito di opposizione e arrestato i suoi esponenti, vinto con metodi opachi conta poco, per lui. Molto di più, per lui come per Imran Khan – ex star del cricket e leader del partito Tehreek-e-Insaf, primo ministro del Pakistan dall’agosto 2018 – conta l’appoggio della Cina.

Per la Cambogia, il 2018 è infatti l’anno della virata verso Pechino. L’altro elemento rilevante nel quadrante asiatico è proprio la reazione diversificata alla Belt and Road Initiative cinese, che ha provocato anche reazioni preoccupate.

In Malesia, nel maggio 2018 Mohathir Mohamad si è assicurato la vittoria contro il primo ministro in carica Najib Razak giocando sulla paura della crescente influenza cinese. Paura che è arrivata fino in Australia, dove il primo ministro Malcoln Turnbull ha fatto passare una legge contro le interferenze esterne – vedi cinesi – prima di essere sostituito da Scott Marrison. Rimane al suo posto, invece, Aung San Suu Kyi, leader della National League for Democracy (Nld), Nobel per la pace nel 1991 e dal 2016 «primo ministro» del Myanmar. Da paladina della democrazia a espressione di un regime responsabile della pulizia etnica contro la minoranza dei Rohingya, la sua stella cadente è un simbolo della tendenza in atto nel 2018 in Asia, dove i diritti sono stati calpestati con crescente sfacciataggine e impunità dai leader al potere.