All’inizio del 2014 cento artisti, intellettuali, scrittori e poeti del mondo arabo firmarono un appello che chiedeva la sua immediata liberazione. E in seguito tanti altri hanno denunciato la sua detenzione.

Niente da fare. Ashraf Fayadh resta in carcere. E nei giorni scorsi l’artista e poeta palestinese, cresciuto in Arabia saudita, è stato condannato a morte per “apostasia” e per “aver abbandonato l’Islam”.

Il suo nome si aggiunge a quelli del blogger Raif Badawi (al quale il mese scorso è stato assegnato il Premio Sakharov), condannato al carcere e alle frustate, e del giovanissimo attivista Nimr Baqir al Nimr, arrestato nel 2012 e condannato anch’egli a morte.

Fayadh, Badawi e al Nimr sono soltanto i più noti dei numerosi detenuti per reati d’opinione e politici che languono nelle carceri dell’Arabia saudita alleata di ferro dell’Occidente e impegnata, con armi e soldi per i “ribelli” siriani, a «portare la democrazia e la libertà» a Damasco.

Ora molti, ovunque, si stanno mobilitando per salvare Fayadh dalla morte. Nessuno sa se questi sforzi avranno successo. Le proteste internazionali sino ad oggi non sono servite a ridare la libertà a Badawi e al Nimr.

Fayadh è stato arrestato la prima volta ad Abha, al termine di una accesa discussione con un altro artista, da agenti della muttawa, la polizia religiosa, per aver pronunciato, secondo l’accusa, frasi contrarie alla morale e alla fede. Rilasciato su cauzione è stato di nuovo arrestato e condannato con l’accusa di «aver promosso l’ateismo» nella sua raccolta di poesie “Instructions Within” del 2008.

Molti credono che Fayyadh in realtà sia stato arrestato per aver postato il video di un uomo fustigato in pubblico ad Abha. Comunque sia, un tribunale minore, ribaltando la sentenza del 2014 che aveva condannato Fayadh a quattro anni di prigione e a 800 frustate, lo ha ora condannato a morte.

A carico del poeta ci sono anche le accuse di uno studioso islamico che ha denunciato come «blasfeme» le sue poesie, a suo dire, pericolose perchè potrebbero «spingere altre persone ad allontanarsi dall’Islam».

Fayadh in primo grado aveva presentato le sue scuse ottenendo una sentenza più leggera rispetto a quella richiesta dalla pubblica accusa. In appello le cose sono andate diversamente. I giudici peraltro non hanno tenuto in considerazione i testimoni della difesa.

Ecco una delle poesie del condannato a morte, tradotta da Chiara De Luca di Irisnews.

«Asilo: Stare in piedi in coda alla fila. Ricevere un boccone di pane. Resistere! Qualcosa che tuo nonno era solito fare. Senza saperne la ragione. Il boccone? Tu. /La patria: Un documento da mettere nel portafoglio. /Denaro: Carta con sopra immagini dei leader. /La foto: Il tuo sostituto previo tuo ritorno. /E il ritorno: mitologica creatura… uscita dai racconti di tua nonna. Fine della prima lezione».

Versi dal significato pernicioso per gli inflessibili giudici delle corti saudita.

D’altronde nel regno dei Saud la letteratura è sempre stata guardata con diffidenza perchè potrebbe aprire le coscienze e portare i cittadini ad esprimere dissenso verso un sistema sociale sotto il controllo dalle gerarchie religiose wahabite. Nel 2014, alla Fiera del libro, furono sequestrati migliaia di volumi – specie sulla condizione delle donne – di centinaia di autori ritenuti poco rispettosi della fede.

Le pressioni internazionali, sollecitate da Human Rights Watch, potrebbero evitare a Fayadh di seguire la sorte delle 150 persone che sono state decapitate con la spada nel 2015 per decisione dei giudici sauditi.

Si teme in questi giorni anche per la sorte dell’avvocato Waleed Abulkhair, arrestato e condannato lo scorso anno per «incitamento dell’opinione pubblica».

Abulkhair inizialmente era stato condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi, a sorpresa, inasprita da un altro tribunale, specializzato in «terrorismo», che a inizio 2015 ha sentenziato una pena di 15 anni.

Il pugno di ferro delle autorità saudite si è inasprito durante e dopo la «primavera araba». Il timore che il malcontento crescente tra i sudditi più giovani sfoci in manifestazioni di protesta ha spinto la monarchia a usare la repressione con i dissidenti politici e gli attivisti delle riforme.

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