Nell’autunno del 2017, le gallerie Tibor de Nagy e Pratt Manhattan di New York resero omaggio a John Ashbery, a pochi mesi dalla morte, esponendo i suoi bizzarri collage, oltre centoventi opere realizzate nell’arco di settant’anni. Il poeta americano più influente della sua generazione si rivelava al pubblico anche come artista pop: fin dal 1948 si era infatti dilettato a incollare su cartoline e tabelloni di giochi da tavolo ritagli di varia provenienza, ricomposti in combinazioni umoristiche dal significato sfuggente. Personaggi del mondo dei fumetti e della pubblicità vi si mostrano in segreta conversazione con i grandi capolavori dell’arte – Giorgione con Crazy Cat, Parmigianino con Buster Brown – spesso accompagnati da musi di enigmatici gatti, o incastonati fra carte da gioco e vecchi francobolli.

L’effetto straniante dei contrasti rimanda subito ai versi di Ashbery, alla sua lingua familiare e misteriosa, giocosa e malinconica. Questi collage sono glosse iconografiche alla sua scrittura e al suo modo di accostare registri alti e bassi, ciò che negli anni Settanta fece di Ashbery un poeta di riferimento fra i molti sperimentatori alla ricerca di nuovi modi espressivi. Il capolavoro di quel decennio, Autoritratto entro uno specchio convesso, torna ora in traduzione italiana, amorevolmente curato da Damiano Abeni (Bompiani «Capoversi», pp. 240, € 18,00) dopo la versione del 1983 di Aldo Busi per Garzanti, introdotta da Giovanni Giudici.

Idee sui pensieri
Il poemetto, ispirato al quadro di Parmigianino citato nel titolo, ha reso celebre la raccolta, in cui Ashbery compone un ritratto dell’artista contemporaneo precisando cosa significhi, per lui, fare arte: se è questo a dare unità tematica al libro, quella stilistica proviene invece dall’ininterrotto ragionare del poeta americano su tutto quanto gli capita, osserva e percepisce, come se i pensieri fossero anelli di una catena di libere associazioni. Cos’è lo scrivere, si chiede in una poesia: «è fissare sulla carta /non proprio pensieri, ma idee, forse: /idee sui pensieri».

Una poetica sembra sempre sul punto di manifestarsi, ma subito si scioglie in qualcos’altro e lascia il posto a diverse considerazioni avanzate dal suo ragionare. Il soliloquio di Ashbery continua così a diramarsi in direzioni sempre nuove: proprio all’inizio del libro, si legge: ogni cosa «è citazione di se stessa» e germina nomi che «si ramificano in altri riferimenti».

Frammenti simili di meta-poesia si inseriscono come pause nel fluire delle parole e delle cose in continua metamorfosi e estendono il loro significato oltre il limite imposto dal reale. Come scrive Harold Bloom nel saggio del 1979 che Abeni ripubblica in apertura, Ashbery va «a caccia dell’anima».

Alla maniera di un canzoniere (come viene definito nella bandella) Autoritratto entro uno specchio convesso documenta la quotidianità e la reinventa, mostrando con leggerezza l’altra faccia di ogni cosa. E sebbene la sensibilità moderna non possa essere racchiusa in una formula, Ashbery trova nel suo variegato discorrere un metodo lirico per rappresentarla.

Capita, infatti, di riconoscere frasi che abbiamo appena detto («Un giorno uno ha chiamato mentre non c’ero…»), ma inserite nel suo ritmico ragionare, tra lingua parlata e frammenti di vita spicciola («Oggi a pranzo: frittata di cipolle, patate /e peperoni…») che coesistono con un registro linguistico alto, fatto di termini ricercati, citazioni colte, speculazioni sul vivere che sembrano dar voce a apprensioni e domande in un mondo magmatico senza confini e senza ordine. Uno sguardo ai collage – un buon numero dei quali si trova online – illustra bene la poetica di Ashbery, in quelle estrose e sorprendenti combinazioni.

Ashbery, che correggeva poco i suoi testi, era solito dire che aveva invece elaborato per mesi i 552 versi ispirati al dipinto di Parmigianino che chiudono il libro. Un leggero cambio di passo è infatti avvertibile: l’autore esce dal suo monologare e si confronta con l’artista del passato, lo interroga sul perché si sia ritratto con quella «bizzarria», la mano destra slargata dallo specchio convesso e più grande della testa. Ossessionato dalla alterazione del reale, Ashbery entra e esce dal quadro, lo scompone e ricompone, cita Vasari e altre fonti per ricostruirne la storia, misura la distanza fra il suo tempo e quello del pittore: «Vienna è dove sta oggi, dove / l’ho visto con Pierre nell’estate del 1959; New York / è dove sto io adesso, città che è logaritmo / di altre città».

Se la prima delle sei parti rientra nel genere ecfrastico, nelle seguenti Ashbery mette a confronto l’idea di arte che gli rimanda l’immagine immobile del pittore manierista con la sua di poeta in un tempo mobile e senza appigli sicuri. Come in dissolvenza, nel finale il dipinto con la mano deformata arretra dallo sguardo del giovane poeta, fino a diventare una cosa fra le cose.

Quando uscì negli Stati Uniti nel 1975, Self-Portrait in a Convex Mirror vinse il Pulitzer e altri prestigiosi premi consolidando la reputazione di Ashbery, poeta già piuttosto noto e all’avanguardia fin dagli anni Cinquanta. Insieme a Frank O’Hara, James Schuyler e Kenneth Koch era stato associato alla cosiddetta New York School, etichetta coniata da Robert Motherwell per indicare gli artisti che frequentavano la galleria d’arte Tibor de Nagy. Sue poesie furono pubblicate nel 1953 proprio da questa galleria dove s’incontravano giovani poeti uniti dall’interesse per l’arte contemporanea, l’ambiente metropolitano e la ricerca di una lingua nuova.

Appena percettibile
Per Ashbery il mondo artistico della New York di metà secolo segnò anche l’inizio del suo rapporto con le arti figurative. In Francia, dove visse per una decina di anni, fino al 1965, cominciò a collaborare come critico con importanti riviste d’arte, mestiere che lo ha accompagnato per tutta la vita insieme all’arte minore del collage. Proprio uno di questi, intitolato Still Life e datato 2016, è interamente dedicato all’autoritratto di Parmigianino: qui la mano sproporzionata dell’artista rinascimentale è coperta da un’altra mano, quella con il grappolo d’uva del Bacchino malato di Caravaggio, che si fa avanti alla destra del quadro: l’omaggio dell’anziano e autorevole poeta alla sua poesia più nota si risolve in una commistione di registro alto in chiave ironicamente pop. Spinto sullo sfondo il volto del pittore, l’immensa mano caravaggesca che nasconde quella nel dipinto riformula visivamente ciò che per Ashbery è l’invenzione artistica: un’alterità che entra «nelle più comuni / forme delle faccende quotidiane» cambiando tutto «in modo appena percettibile e profondo».