suoi seguaci, pronti a scatenare una nuova offensiva militare in Libia, ci siamo dimenticati che cominciare le guerre è facile, finirle è difficile. E vincerle impossibile. Lo dimostra l’Afghanistan. E lo conferma il nuovo segretario alla Difesa degli Stati uniti, Ash Carter. Appena due giorni dopo il suo insediamento, avvenuto giovedì, ieri è arrivato a Kabul per una visita inaspettata, la prima come capo del Pentagono.

Nella capitale afghana ha incontrato il presidente Ashraf Ghani, e con lui ha tenuto una conferenza stampa importante. Perché Carter ha detto ciò che molti Repubblicani aspettavano da tempo di sentire: stiamo rivedendo i piani di ritiro dall’Afghanistan. Nel celebre discorso del 27 maggio 2014, il presidente Obama aveva annunciato tempi e numeri del ritiro: 9.800 truppe americane alla fine del 2014, ridotte a 5.000 entro la fine del 2015, per arrivare a una presenza minima, per tutelare l’ambasciata, alla fine del 2016. Ora, ammette Carter, i piani sono diversi. Perché è mutato il contesto internazionale, e perché il nuovo governo di unità nazionale afghano, guidato da Ashraf Ghani e dal quasi «primo ministro» Abdullah Abdullah, garantisce quell’armonia politica che l’ultimo Karzai aveva incrinato.

Per ora non ci sono numeri precisi. Ne discuteranno il prossimo mese a Washington il presidente Obama e l’omologo Ghani. Ma è chiara la volontà di allungare i tempi del ritiro e di rivedere la strategia per le operazioni di contro-terrorismo. Sembrano tutti d’accordo. Lo saranno meno i Talebani e le altre forze anti-governative, a dispetto dell’entusiasmo con cui nei giorni scorsi sono stati accolti i primi passi nella ripresa del negoziato coi barbuti: «Non possiamo fare annunci prematuri, ma le condizioni per la pace non sono mai state così buone negli ultimi 36 anni», ha dichiarato Ghani. Vedremo quanto c’è di vero e concreto.

Per ora, di concreto c’è soltanto che i civili continuano a morire, come mostra l’ultimo rapporto sulle vittime civili reso pubblico pochi giorni fa da Unama, l’ufficio dell’Onu a Kabul. Il primo, inequivocabile dato che ne emerge è l’intensificazione del conflitto e delle sue conseguenze sulla popolazione. Quanto alle vittime civili, il 2014 risulta infatti l’anno peggiore da quando l’Onu ha cominciato a redigere rapporti sistematici.

L’incremento delle vittime e dei feriti civili rispetto al 2013 è stato del 22%. Le vittime sono state 3.699 (più 25%), i feriti 6.849 (più 21%). Le responsabilità vengono attribuite per lo più alle forze antigovernative (72%), e solo in minima parte a quelle pro-governative (il 14%, di cui il 12% è attribuito alle forze di sicurezza afghane, il 2% alle forze internazionali, mentre un altro 10% rimane inverificabile).
Con il progressivo ritiro delle forze internazionali, e con il contestuale venire meno del sostegno aereo americano ai soldati afghani, a cambiare è il modo di combattere: aumentano i conflitti sul terreno, prolungati (che causano il 34% delle vittime), perché i barbuti si fanno più spregiudicati, e aumentano gli attacchi suicidi e le azioni complesse (causa del 15% delle vittime), mentre rimane costante il ricorso dei Talebani ai cosiddetti ordigni esplosivi improvvisati.

Il calo statistico delle vittime imputabili alle truppe straniere, nasconde un tranello: oggi in Afghanistan sono le forze speciali americane, insieme alla Cia, a compiere raid notturni e azioni di controterrorismo, in partnership con le forze paramilitari dei servizi di sicurezza afghani o con le milizie private pro-governative. Attività difficile da tracciare, fuori da ogni controllo e dai calcoli statistici, come ha ricordato Kate Clark, dell’Afghanistan Analysts Network. Rispetto ai rapporti precedenti, quest’anno Unama ha aggiunto anche una sezione dedicata alle vedove di guerra. 60 interviste, per un quadro desolante: tutte le donne lamentano un’estrema fragilità economica, e una su quattro aggiunge di essere stata maltrattata dalla famiglia o dalla comunità in cui vive, dopo la scomparsa del marito. Le vedove e i loro figli vengono considerati pesi morti, di cui liberarsi, o da sfruttare.

Cacciate di casa, costrette a risposarsi, vittime di abusi sessuali, violenze fisiche e verbali. I dati del rapporto di Unama sono una risposta indiretta a Laura Bush. Nel 2001, per giustificare l’occupazione militare la moglie dell’ex presidente Usa George W. Bush aveva issato strumentalmente il vessillo della difesa delle donne afghane. Oggi quelle donne continuano a soffrire le conseguenze di una guerra non voluta.