Lungo la Croisette militarizzata i CRS passeggiano lanciando dietro ai Rainbow seventies occhiate sospettose, l’accesso è chiuso ma il bus panoramico procede senza veti per la delizia dei turisti. Sulla spiaggia i primi bagnanti della stagione sfidano i capricci di un sole grigio-afoso, odore di frittura e di gaufres, in tanti già al mattino cercano il posto per godersi la prima Montée des Marches senza selfie del Festival. Cannes, Costa Azzurra, Francia, il sapore della provincia formato star, lusso volgarotto e ostentazione macroniana di yacht di plastica davanti al bagnasciuga, sui palazzi sempre uguali ammiccano i grandi blockbuster. L’edizione numero 71 si è aperta ieri con il film del regista iraniano, molto amato dal festival, Asghar Farhadi Everybody Knows (in Italia uscirà per Lucky Red in autunno), il suo primo girato in Spagna, con la coppia di star Penelope Cruz e Javier Bardem, in cui l’Iran non appare anche se quel talebanismo di fondo che caratterizza scrittura e attitudine a crocifiggere i personaggi (e in qualche modo lo spettatore) rimane – del resto il marito della protagonista, Laura (Cruz) è cristiano ossessivo.

Ma prima ancora del film che l’ha aperta questa edizione è passata agli annali (festivalieri) come la prima del dopo-Weinstein, tema molto discusso – «E Cannes creò il potentissimo Weinstein» titola un articolo nel numero speciale di Le Monde sul festival, con riferimento alla Palma d’oro del 1994 a Pulp Fiction che sancì anche l’inizio della scalata del produttore. Del #rienlasserpasser, versione francese del #metoo per dire delle iniziative contro le molestie – «Non roviniamo la festa» si legge su un biglietto listato di nero che ricorda anche le pene per molestie, da 3 anni di prigione a 45.000 euro di multa consegnato il primo giorno coi materiali del festival – con un numero a cui rivolgersi in caso di violenze fisiche o psicologiche (come già alla Berlinale). Del divieto dei selfie sul tappeto rosso – no selfie no party verrebbe da dire pensando agli investimenti in look di un anno intero solo per farsi vedere e niente invece, ma l’interdizione vale solo per il pubblico, gli artisti possono immortalarsi. Sull’argomento c’è un ottimo articolo su «Mediapart» a firma di Emmanuel Burdeau in cui spiega il perché, per il terzo anno consecutivo, la testata non sarà sulla Croisette. Dello scontro con Netflix e, soprattutto, della griglia di programma, annunciata come la grande novità del millennio per proteggere i film nell’era della stampa digitale che di fatto decreta l’umiliazione della stampa scritta, della critica in particolare, a favore di quella digitale – nonostante sia proprio la sua esistenza a motivare le nuove regole – va detto che non avremmo immaginato a che punto questa umiliazione poteva arrivare prima di avere inflitta la diretta su schermo della cerimonia di apertura.

Di fatto tutti i divieti dai selfie a Netflix esprimono una sola cosa: la debolezza di un festival che è (è stato?) il più grande festival del mondo incapace, e non solo da questa edizione, di confrontarsi con quanto i cambiamenti nel sistema delle immagini richiederebbero alla sua portata. E questo vale per i selfie e per Netflix, per l’informazione digitale (in cui entrano anche i selfie) che ormai è contemporanea agli accadimenti, un dato che apre a ogni possibile manipolazione e sconvolge il rapporto di reale/falso. Non assumere che tutto questo necessiti una presa di posizione «attiva» – non solo divieti – significa perdere di vista quanto accade nel cinema oggi, autori, film, tutti coloro che consapevoli di queste mutazioni cercano una posizione, un punto di vista nelle proprie immagini con cui restituire il mondo, la realtà, la sua invenzione. E non è mettendo la sbarra a Netflix che si risolvono i problemi posti dalla sua presenza o dal suo potere, così come è assurdo che un festival forte presenti solo film garantiti, con un uscita in sala quando invece il suo ruolo dovrebbe essere quello di sostenere produzioni e autori meno protetti.

Che film è dunque questo Everybody Knows, «Lo sanno tutti» come si dice in un paesino o in una comunità ristretta come dove è nata Laura prima di partire col marito per l’Argentina in cerca di fortuna? Coi figli torna dopo molto tempo per il matrimonio di una delle sorelle. Sorrisi, abbracci, stupori, «papà è tanto invecchiato», ricordi messi a dormire, l’ex grande amore che ormai si è risposato, Paco, (Bardem) e coltiva le vigne. La festa è danza, vino, la figlia di Laura adolescente è bella e un po’ folle, l’altro figlietto è piccino con gli occhiali grandi da vista, il marito non c’è, in paese tutti sanno che ha i soldi, il prete lo ringrazia ancora per avere sostenuto i lavori della chiesa. A un certo punto salta la luce, i figli di Laura sono stanchi, il jet lag, e via a letto. Quando la donna sale per vedere come stanno la figlia è scomparsa. Rapita. Da lì, in puro stile Farhadi valido per ogni cielo, comincia un gioco spietato delle parti, frammenti di astii e di rivendicazioni, ipocrisie tutte familiare che spostani, ovviamente, il colpevole sui braccianti nordafricani quando come possiamo immaginare ben prima delle due ore – che il «marcio»se così possiamo dire è dentro la famiglia, la comunità, anzi dentro ciascuno di quegli individui disposti a tutto per i propri interessi che non risparmiano nulla nemmeno l’amore materno nel nome del quale, anzi,barare è persino concesso. Infine senza fare spoiler qualsiasi vendetta è consumata anche quella di svelare una patina oscena sotto ciascuno. Ma se negli altri film – come il precedente Il cliente o prima ancora About Elly, l’esotismo dell’’Iran dava a questo meccanismo la patina «giusta» per l’occhio occidentale, qui, nella Spagna assolata dell’uva e della terra che si perde a carte e per troppo vino, svela la sua dimensione di lezioncina puritana, di un cinema povero senza passione.