Che cosa significhi oggi danzare con l’anima di un film, comporne le musiche, farne affiorare il respiro, il battito più profondo; interrogare i grandi maestri, dialogare con loro, e al tempo stesso modellarsi addosso un proprio stile creativo, scoprendo dentro di sé cosa si vuole realmente fare.

A tutto questo Luca Ciut ha risposto qualche tempo fa con le musiche viscerali e ipnotiche di Dancing with Maria, di Ivan Gergolet, Miglior Documentario Europeo nel 2016: un ritratto luminoso dell’epopea interiore e collettiva di Maria Fux, l’artista argentina ultranovantenne fondatrice della danzaterapia. Ora invece, dopo aver esplorato con curiosità poliedrica generi (classica e elettronica, tango e ballate country, rapsodie balcaniche) e linguaggi (videoinstallazione e cinema di finzione, documentario e campagne umanitarie) con Per te solo per te. Per me solo, l’album adesso in uscita, il musicista triestino non teme di sondare il proprio sé più privato, sempre in interlocuzione con l’Altro, in una ricerca di suoni minimali accompagnata dal solo pianoforte.

Studi da compositore prima a Udine e poi a Los Angeles, di recente trasferitosi per una nuova fase di vita in Sicilia, Ciut, che è autore anche delle musiche di Easy Un viaggio facile facile di Andrea Magnani per cui concorre al David di Donatello, sceglie di raccontare quest’ultimo lavoro in prima persona anche visivamente (tiene particolarmente a questa dimensione della sua musica e ne cura autonomamente i video): bianco e nero, una spiaggia, lo vediamo continuare a percorrere un cerchio tracciato sulla sabbia. In voce over narra di contenitori, quelli che ci autocostruiamo come i più difficili da aprire, ma nel suo essere artista muove fortissimo l’impulso a lasciare la propria impronta oltre il perimetro della tradizione musicale.

Mi sembra di capire che questo nuovo album abbia un tracciato creativo speciale, è così?

Sì, il 2016 è stato per me un anno di grandi cambiamenti nella vita personale e sentimentale. In questo frangente ho cominciato a scrivere l’album, poi completato nel 2017. Sentivo il bisogno di raccontare le conseguenze di decisioni che ci portano a momenti di profonda evoluzione nella vita. La scelta di utilizzare un solo strumento come il pianoforte è stata dettata dall’esigenza di volersi concentrare su questa intimità, su questa riflessione interiore.

Il dolore ricorre sia in Quando le stelle vanno a nanna sia in Per me Solo e fortemente in Monologo senz’occhi. Ti preoccupava il rischio che una simile discesa interiore potesse comportare?

L’altro motivo per cui mi sono deciso a scrivere questo album è stato proprio perché mi sono accorto che c’erano pochi lavori che mi rappresentassero veramente. Spesso nel comporre musica cercavo di assecondare qualcuno. Questo può sembrare in parte naturale quando si lavora alle musiche di un film perché si cerca di convogliare il punto di vista di qualcun altro, ma la visione più rivelatrice è stato rendermi conto che mi succedeva anche quando mi approcciavo alle cose che facevo per me. C’è una frase molto bella che dice: impara a governare la tua vita o sarà lei a governare te. In questo cammino ho compreso che la musica che facevo era legata a processi inconsci, perché ho iniziato per volere di mia madre: poi ne è nata una passione, scaturita però dal desiderio di assecondare il volere di qualcun altro. Con questo album ho cercato di rompere questo schema e di raccontare veramente me stesso con tutti i rischi che dici tu.

Scrivi che il lavoro su Maria Fux è stato uno spartiacque cruciale. Come lo hai approcciato e che rapporto hai da compositore col corpo e con questa tipologia di danza?

Prima di iniziare avevo solo sentito nominare la danzaterapia. In fase creativa di composizione delle musiche è avvenuto un piccolo miracolo: la possibilità di percepire istintivamente il movimento delle persone e quella corporeità di cui tu parli. In questo senso mi è stato sicuramente utile il fatto di avere avuto esperienze di ballo, sia col tango sia con discipline altre. La danza è una forma di espressione totalmente diversa dalla composizione di un brano musicale, e questa consapevolezza mi ha spinto a far sì che la musica fosse credibile e che ci fosse una fusione totale con le immagini.

E cosa ti ha lasciato questo lavoro in senso esistenziale?

La parte più profonda del messaggio di Maria ha iniziato a instillarsi durante le presentazioni del film: il suo modo di vivere la musica i suoi insegnamenti di vita, il suo accogliere ogni persona con la sua unicità. Una delle scene che più mi hanno toccato è quella in cui si vede danzare una donna senza un occhio e tutto il capitolo di Maria Garrido che è sorda. Quando ho presentato il film a Buenos Aires, mi sono reso conto che non avevo mai conosciuto Maria di persona così sono andato a fare una lezione al suo studio. Una giornata surreale di sciopero dei trasporti, eravamo cinque sei, non una moltitudine come sempre. E lì provare sulla pelle e sul corpo le cose che lei diceva nel film, non come compositore ma come essere umano, è stato davvero intenso, da brividi.

Nel documentario c’è tutta una scuola di pensiero contraria alla musica. Nel cinema di finzione il movimento Dogma poneva nel suo “protocollo” il divieto di usarla. Cosa ne pensi?

Il mio approccio è molto americano, il che può sembrare controverso però io credo che nella colonna sonora bisogna sfruttare ogni elemento per far vivere allo spettatore una esperienza il più forte possibile. E ci sono ben pochi esempi di film che con un approccio alla Dogma riescono a raggiungere questi risultati. Ovviamente se il regista ha un talento mostruoso come Lars von Trier da tirar fuori un film come Dancing in the dark che, rispettando i canoni del Dogma, ti strappa le budella pur non avendo una colonna sonora convenzionale, allora è diverso, e ci sono altri esempi di film senza corredo sonoro come Gli uccelli di Hitchcock e Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen, ma sono casi rari. Nel caso di Dancing with Maria col regista eravamo decisi a non fare un documentario di verità ma un lavoro dal respiro cinematografico, come se fosse stato un film enorme. Per questo abbiamo dedicato tante energie alla colonna sonora anche quando questo ha comportato difficoltà produttive. Ispirandomi a un testo di Sergio Miceli, teorico della musica da film, in particolare all’analisi di Mission, ho fatto sì che il suono sembrasse provenire dalla sala di Maria e che poi si spalancasse, ritrovandoci a danzare per strada, passando così da una dimensione diegetica a una extradiegetica senza soluzione di continuità.

Dovessi fare un pantheon degli artisti che ti hanno di più influenzato per quanto riguarda la musica da film?

Sicuramente Morricone e John Williams, che mi hanno dato l’imprinting e mi hanno fatto scoprire questo mondo attraverso film come Mission, Guerre stellari e Gli intoccabili; e Morricone doppiamente: quando, durante una lezione di analisi del cinema allo UCLA di Los Angeles hanno proposto la sequenza del duello ne Il buono il brutto e il cattivo come esempio di fusione totale tra immagini musica e emozioni, ho dovuto trattenermi per non piangere e mi sono sentito orgoglioso, ma in senso bello… Un altro che adoro è Dario Marianelli: lo Sturm und Drang di Espiazione è un capolavoro assoluto.

E nell’ambito della musica classica?

In ambito classico sono cresciuto con i romantici e i postromantici, da ragazzo sentivo Chopin Mahler e Wagner, negli ultimi anni amo Max Richter, così come apprezzo nei primi lavori di Einaudi la sua capacità di fare contaminazioni non meccaniche tra pop e classica. Un altro autore per me essenziale è Arvo Part che dieci anni fa mi ha salvato la vita. Al conservatorio tutto era proiettato sullo studio dell’avanguardia e anche io stavo cercando di cambiare il mio modo di scrivere in quella direzione. Ma era una decisione tutta di testa. Sapere che c’era chi faceva cose belle in modo sconvolgente senza andare in ambito avanguardistico mi ha aiutato a capire cosa non volevo fare. Ci sono compositori dei quali non si può fare a meno, come Michael Nyman, adoro Piano Lessons, senza di lui tutta la cosiddetta scuola minimalistica americana, questo movimento di classica moderna non sarebbe potuto esistere.