Piero Terracina era nato nel 1928. Espulso dalla scuola per le “leggi razziali” del regime fascista, a 14 anni fu deportato ad Auschwitz. Nel campo di sterminio morirono i genitori, due fratelli, una sorella, un nonno, uno zio. La sua voce preziosa si è spenta domenica scorsa, 8 dicembre, a 91 anni. Lo incontrai per la prima volta nel febbraio del 1998 (poi sono stato spesso con lui nelle scuole e nei viaggi della memoria. Era sempre come ascoltarlo per la prima volta, la verità profonda delle sue parole, dei suoi gesti, del suo viso si rinnovava ogni volta, ogni racconto era un doloroso ritorno e un atto di coraggio. Una parte di questa intervista, in cui raccontava la strage dei Rom nel campo di Auschwitz, la pubblicammo sul manifesto il 26 gennaio 2003. Ma è improprio chiamarla intervista – le domande sono rare -, soprattutto perché fu la prima e unica volta, nelle centinaia di interviste che ho fatto, che da un certo momento in poi rimasi muto, ascoltando e basta, per più di un’ora. La registrazione si può ascoltare nell’archivio sonoro del Circolo Gianni Bosio, alla Casa della Memoria e della Storia di Roma. Qui riporto la trascrizione di un frammento, senza cambiare una sillaba. Le pause, le ripetizioni sono il segno della fatica del racconto; la chiarezza delle parole sono il segno della sua necessità. Per tutto il tempo il racconto di Piero Terracina non dipendeva dalle mie domande ma solo dal fatto che io fossi lì ad ascoltarlo.

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Dunque, quando il sesto giorno il carro sostò nella stazione di Auschwitz, la sera e tutta la mattina successiva… la mattina del settimo giorno dalla partenza da Fossoli. Nel primo pomeriggio il treno si mosse, entrò dentro, nella stazione all’interno del campo di Auschwitz Birkenau. Avevamo sostato fuori, cioè nella stazione di Auschwitz, della città di Auschwitz perché c’erano altri trasporti che erano arrivati e che dovevano essere, secondo il linguaggio del lager, lavorati prima del nostro.
Aprirono i carri e avemmo immediatamente la sensazione di essere arrivati nell’inferno. In mezzo alle urla delle SS, all’abbaiare dei cani che venivano aizzati contro i prigionieri, dovevamo scendere il più in fretta possibile dai carri; e non per tutti era possibile questo. Io allora avevo 15 anni, poco più di 15 anni, e per me fu facile; ma chi anziano o malato, si attardava, veniva immediatamente colpito da una serie di colpi di bastone, dati alla cieca. Quindi, questa fu l’accoglienza avuta, avuta a Auschwitz.
Poi, una confusione, una confusione indescrivibile, una confusione terribile perché avendo viaggiato su carri diversi ognuno di noi, ognuno, quasi tutti, erano pochi quelli che erano stati arrestati da soli, molti avevano i loro familiari che avevano viaggiato su altri carri – quindi era … naturale, spontaneo cercarli, dopo tanti giorni, vedere… in che condizioni erano, se erano ancora vivi, in che condizioni erano. Eccetera. Con i tedeschi che cercavano di mettere … ordine… con le bastonate, io mi ricordo che andammo alla ricerca coi miei fratelli, mio padre, prima avevamo incontrato i miei fratelli e mio zio, andammo alla ricerca di mia madre e mia sorella, quindi facendo tutto il convoglio… finché l’incontrammo, l’incontrammo che avanzavano dal fondo del convoglio verso, verso il centro.
E… ci abbracciammo. Tutti. Mia madre… aveva capito, subito, che era la fine. Ricordo che ci… ci dette la sua benedizione. Ci mise le mani sul capo… E poi vide che s’avvicinavano dei tedeschi con i bastoni alzati, ebbe paura – ebbe paura, non ebbe paura per lei, ebbe paura per noi; e ci disse andate, andate. E poi aggiunse, dice: non ci rivedremo.
E va be’.
E… purtroppo poi così è stato.
Riuscirono a formare, a mettere ordine, coi loro sistemi, le SS, formarono due file, una fila di uomini e una fila di donne. Davanti alla fila delle donne si schierarono un gruppo di ufficiali, delle SS, tutti con il bastone in mano; la fila delle donne cominciò a muoversi… e, uno di questi indicava, di quella fila, chi doveva andare da una parte e chi dall’altra. Era cominciato lo sterminio.
Perché quelli che andavano, che erano poi i più – cioè le persone anziane… in quel momento erano soltanto la fila delle donne; le persone malate; e i bambini – dovevano andare da una parte, ed erano forse l’ottanta percento di quelli che erano arrivati. Dovevano andare a formare un’altra fila. E, lì… ci furono delle scene terribili; perché cercavano di togliere, alle mamme, i bambini che portavano in braccio o per mano. Per caricarli su dei camion. Perché, la mamma, giovane, poteva continuare, poteva lavorare. I bambini no. E allora… queste madri che, urlavano, si disperavano, rincorrevano, cercavano di prendere i loro… i loro bambini; qualche volta ci riuscivano pure. Si dovevano rimettere in fila e quando passavano poi, ripassavano davanti a quello che era l’ufficiale tedesco, che poi era il medico, li mandava nella fila dov’erano andate la maggior parte delle donne. Quindi a morire. La stessa cosa poi…

Cioè le madri che avevano ripreso i bambini andavano a morire anche loro…
Andavano a morire anche loro. Quindi non facevano, non tentavano ancora di separarle, le mandavano mamme e bambini, li mandavano dalla parte del coso. E… stessa cosa poi per la fila degli uomini. Mio padre e mio nonno da una parte; io, i miei fratelli e mio zio dall’altra.
Ci portarono in una baracca, c’erano già dei prigionieri che coadiuvavano coi tedeschi per le operazioni dell’arrivo, e c’erano anche degli italiani in questo gruppo perché, essendo il trasporto che arrivava, il trasporto che arrivava dall’Italia, allora avevano messo dei prigionieri italiani per coadiuvare con i tedeschi per quelle operazioni dell’arrivo. E quindi il nostro pensiero, era quello di sapere… dei nostri cari, delle cose… Ci dissero subito, che… forse erano già usciti dal campo attraverso il camino. Perché, erano stati avviati alla camera a gas, subito, praticamente, e dalle camere a gas poi, ai forni crematori.
Quindi lì, la stanchezza del viaggio, le condizioni di confusione anche mentale, la fame, la sete… poi, così, una certa degradazione, i colpi ricevuti, tutto l’insieme, la confusione, lo stato confusionale in cui eravamo noi perché non riuscivamo a renderci conto esattamente di quello che stava… di quello che stava succedendo, poi completamente nudi – denudati completamente, privati di tutto, letteralmente di tutto, privati degli abiti, privati prima di tutto delle persone care; dei pochi oggetti che uno aveva portato, privati dei capelli, privati perfino dei peli – con la depilazione completa. Un prigioniero che immerge una mano con un guanto di iuta in un secchio che contiene credo della creolina, un antiparassitario, e che lo passa in tutte le parti del corpo di tutti i prigionieri, dalla testa… alle parti intime, fino ai piedi. Stare poi davanti a un soldato tedesco che preparava la scheda, completamente nudi davanti a uno completamente vestito è quanto di più degradante ci possa essere. Poi… l’immatricolazione. Ci veniva dato un numero che ci veniva anche tatuato sul braccio sinistro; e ci veniva detto che quel numero dovevamo impararlo immediatamente in tedesco perché per qualsiasi cosa saremmo stati chiamati con quel numero perché il nostro nome non contava più niente, non esisteva più. Eravamo diventati soltanto un numero. Quindi non eravamo assolutamente, non avevamo più niente di umano. Eravamo ormai ridotti a… non lo so; a una, una cosa. Tant’è vero che i tedeschi, quando poi ci contavano, non dicevano, non so, nella baracca 520 persone. 520 Stucke, cioè pezzi. Eravamo diventati dei pezzi.

…Prima di questo momento, Piero Terracina aveva raccontato la sua infanzia, la famiglia, l’espulsione dalle scuole, l’arresto per una spiata, le ultime parole del padre in carcere a Regina Coeli, il trasporto. Poi il racconto è andato avanti ancora a lungo: la vita nel campo, la rivolta del Sonderkommando, la liberazione («Si può pensare che, chissà quali scene di giubilo. Niente, assolutamente niente. Niente, un silenzio totale. Poi qualcuno cominciò a pregare, qualcuno cominciò a piangere ma, nessuna scena di giubilo»), le peregrinazioni per l’Europa, il ritorno a casa. Solo alla fine ritrovai la voce.

…E quindi questa è stata diciamo un po’, la mia storia, ripeto… quello ch’ho raccontato è soltanto la quotidianità, del campo. Perché le cose più atroci, alle quali siamo stati costretti ad assistere, be’ credo che pochi di noi hanno il coraggio di raccontarle.

Lei quand’è tornato era in grado di parlare di queste cose?
Ma io, per più di quarant’anni non ne ho mai parlato.
Non ho mai parlato neppure con le persone più care. Cioè sentivo, inizialmente, appena sono tornato, che c’era molta gente che cercava di avvicinarmi, soprattutto dei parenti di deportati che volevano notizie dei propri cari, e io ho sempre evitato di incontrarli. Ho evitato di incontrarli perché temevo che mi facessero una domanda: come ti sei salvato?
Comunque io per più di quarant’anni non ho mai parlato con nessuno, neppure con le persone più care.

Però ce l’aveva dentro…
Eh sì. Poi invece, è scattato un qualche meccanismo, per cui piano piano son arrivato alla decisione opposta. Non è stata una decisione, è avvenuto da sé…

Com’è avvenuto?
Ma, io credo che sia stata una reazione – direi che il momento in cui proprio ho deciso, forse una qualche idea ce l’avevo già da prima, in cui ho deciso che il momento di cominciare a parlare e che non potevamo, non potevo più tacere, è stato quando c’è stata la profanazione del cimitero di Carpentras. In Francia (l’11 maggio 1990, a pochi chilometri da Avignone, ndr).
Credo che sia stato quello il momento in cui ho detto non… è più possibile. Non è più possibile tacere.